Dalla Baia incantata di Jeranto, i mitici faraglioni di Capri, 31 marzo 1996 (foto di Giacomo Garzya)

GIACOMO GARZYA: ALCUNE FOTO SUI TANTI CONTROLUCE SU CAPRI E I SUOI FARAGLIONI, UN VERO E PROPRIO STUDIO SULLA LUCE DURATO UNA VENTINA D'ANNI

UNA RIFLESSIONE SULLA MIA ATTIVITÀ DI POETA E FOTOGRAFO

La poesia è stata sempre parte importante della mia vita, rappresentando una continua ricerca esistenziale: la mia inquietudine, la storia come memoria, gli amori, i luoghi, la natura, il vento e il mare motore di tutte le cose, le mie radici mediterranee e nordiche, fino al lutto per la scomparsa tragica di mia figlia Fanny. Sulla mia prima formazione giovanile, molta importanza hanno avuto le letture intensive dei classici, in particolare i Poemi omerici, Saffo e gli altri Lirici (nella traduzione di Salvatore Quasimodo), Catullo, Orazio, Foscolo, Kavàfis, Garcìa Lorca, Ungaretti, Dostoevskij, Hemingway, de Saint-Exupéry, Malaparte e la Fallaci. Quanto allo stile, come è stato già notato nel 2001 da Giuseppe Galasso nella prefazione al mio secondo libro di poesie “Maree”, “i versi di Garzya sono…lievi, scorrono con la naturalezza della spontaneità che li ha dettati anche quando sono densi…di nomi famosi, di tòpoi storici e letterari”. Lo stile, infatti, nella scrittura ha un peso specifico: Francesco De Sanctis diceva che “la forma è la cosa”, ma l’uso indispensabile delle principali regole della retorica – la poesia non è la prosa – e la forza evocativa delle parole, legate al personale bagaglio lessicale (la parola greca “Logos”, quindi, nei suoi due significati di parola e pensiero, tante parole tanti pensieri), non bastano da sole, senza un’ispirazione creativa fatta di emozioni, l’ “Io lirico”, la storia anche personale di ieri e di oggi, purché si renda universale. Quindi forma e contenuti, secondo la lezione leopardiana che definiva Vincenzo Monti “poeta dell’orecchio e della immaginazione, ma non del cuore”. L’immediatezza, poi, con cui ho scritto molte poesie non vuol dire scrittura spontanea, ma pensieri sedimentati, che fuoriescono quando devono, quando sono maturi. Il mio percorso poetico trentennale, se non si considerano gli anni giovanili, vuole  coltivare innanzitutto l’ “Io lirico”, essere un’introspezione non intimista, bensì universale, vuole essere autobiografico, un “romanzo della vita”, alla Umberto Saba, un diario dell’anima, non della mia soltanto, ma di tutte le anime portate a pensare, a riflettere sul significato della propria esistenza, nel suo scorrere tra esperienze trascorse e nuove emozioni; la mia poesia, infine, fin dall’inizio, ha voluto essere anche un antidoto contro l’oblio del tempo, preservando i valori della nostra civiltà, tenendo sempre vivi gli affetti, che ci consentono di sopravvivere in un mondo spesso ostile, non sempre o non proprio amico. Sin da piccolo mio padre Antonio – poliglotta (parlava correntemente otto lingue), insigne Filologo classico e bizantinista, professore di Letteratura greca all’Università Federico II di Napoli, nonché di greco medioevale alla Sorbona e “associé étranger de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres” –  il mio primo Maestro, mi inculcò il valore dell’universalità e quando scrivo interrogo me, pensando agli altri. Sicuramente nelle mie poesie, col passare degli anni, vi si legge anche un iter di maturazione verso tematiche storiche, sociali, religiose, ambientali, non solo, quindi, legato a ispirazioni introspettive e intimistiche, che pure sono parte consistente della mia produzione. Il mio poetare, infine, definito da qualche critico, “neoumanistico”, spesso vissuto in prima istanza con le persone care, è un invito a vivere con gioia le cose belle, ribadendo con forza la mia citazione di Oscar Wilde, nella mia prima silloge poetica del 1998, “Solaria”: “coloro i quali trovano nelle cose belle significati belli, sono persone colte. Per questi c’è speranza”.  La bellezza, quindi, non fine a se stessa ma storicizzata, che fa stare in pace sé e gli altri, in contrapposizione dialettica al dolore, al dramma della morte. Il dolore, il dubbio, l’oppressione rimanendo comunque i veri motori dell’esistenza, forieri di creatività, di libertà, di fede, anche quella del “Deus sive Natura” di Spinoza, che aveva divinizzato l’intero Cosmo, stando all’interpretazione di Hegel.

Quanto alla mia fotografia, essa nasce fin dall’infanzia come fotografo di famiglia nei viaggi estivi, quando con un apparecchio a fuoco fisso, senza nessuna pretesa, fotografavo viaggiando con la mia famiglia; fu in quegli anni che visitando musei d’arte nelle varie capitali europee, acquisii un gusto personale, utile per inquadrare le foto, di lì anche la capacità di saper osservare i paesaggi, urbani e non, nonché le varie tipologie di persone incontrate. La mia fotografia divenne professionale in pochi anni, dopo il passaggio nel 1981 alla reflex e alle diapositive, con risultati più che soddisfacenti, soprattutto quando iniziai a fotografare con l’ottica Zeiss. Questo percorso analogico si concluse nel 2009, l’anno in cui fui costretto al digitale, in primo luogo, perché i laboratori fotografici, per il crollo della domanda, non rinnovavano più con frequenza gli acidi per lo sviluppo delle diapositive, con risultati a dir poco disastrosi, in secondo luogo perché diventava sempre più difficile reperire le pellicole, essendosi ridotta la loro produzione a livello mondiale. La mia fotografia, poi, è stata innanzitutto basata sullo studio impressionistico della luce: per qualche critico, una metafisica della luce finalizzata alla ricerca di una natura primordiale nei suoi elementi fluttuanti, in un incessante pànta rheî, quindi uno studio sui quattro elementi, basata sulla lettura dei Greci, in particolare i frammenti di Empedocle, che mi portava a fotografare nuvole, tramonti rossi, onde marine, rocce, albe sul Vesuvio, secondo un criterio che avrebbe portato al superamento del momento prettamente emotivo che le aveva volute. L’acqua, elemento primigenio, la terra in continua trasformazione, il fuoco indomito che stordisce, abbaglia, che dà luce alla scena e calore alla nostra esistenza, alla nostra fantasia, quindi anche un rapporto cromatico-emozionale tra elementi che interagiscono tra loro: Fuoco-Sole-Luce-Energia-Calore-Colore-Nuvole-Acqua- Vento-Roccia. Tale ricerca, durata molti anni, confluì in parte, per quanto concerne l’elemento Acqua, in una mia mostra personale nel 2006 all’Istituto italiano per gli Studi filosofici “Il mare che non si vede”. Lo studio monografico sui quattro elementi, solo per la mia incapacità di trovare degli sponsors, non si concretizzò, una ventina d’anni fa, in una mostra personale a Milano e in un volume edito sempre a Milano, la capitale italiana della fotografia. Ebbene questi, oltre ai reportages fotografici dei miei viaggi, sono i temi ricorrenti nella mia fotografia. Quanto alla mia fotografia analogica, la diapositiva per me aveva rappresentato un prodotto finito già allo scatto, non si poteva sbagliare, e già ne conoscevo il risultato, buono non solo per il reportage, ma soprattutto per la fotografia creativa. Anche con l’apparecchio digitale, in realtà, con opportuni accorgimenti e tarature a priori, fotografando per lo più con priorità dei diaframmi, ho ottenuto ottimi risultati, senza mai arrivare al “photoshop”, se non per regolare, quando necessario, la luminosità. Pur rimpiangendo la fotografia analogica, per una mia personale modalità di intendere la resa fotografica, la fotografia digitale, specie nel reportage e nelle precarie condizioni di luce, presenta innumerevoli vantaggi, che non sto qui a dire tanto sono noti, su tutti quello di avere a disposizione un numero quasi illimitato di scatti e, nella stessa macchina, molteplici pellicole, nonché quello di non dipendere dalla temperatura dell’ambiente circostante, nemico giurato delle diapositive. Infine la fotografia digitale ha aperto a un tipo di arte più concettuale, surreale, rielaborata a tavolino, ma che non ha più niente a che fare col mio modo di intendere la fotografia, sempre soggettiva, ma al confronto, senz’altro più realistica.

Oggi non sono ancora, a 72 anni appena compiuti, come disse Cesare Pavese a quarant’anni, “alla fine della candela”, ma vivo con molto piacere questa fase della mia esistenza, e, dopo aver superato momenti piuttosto difficili quanto alla salute, le mie giornate sono state sempre piene, anzi devo dire che non ho mai lavorato tanto in vita mia, nel senso che ho letto molto, ho fotografato molto e le mie poesie, scritte dal periodo della pandemia ad oggi, sono state permeate non di rado, da una visione più storicista e da un “pensiero forte”, da far prevalere sul cosiddetto  “pensiero debole”. Questo lascito idealista l’ho avuto dai miei studi storici, dai miei Maestri Giuseppe Galasso e Mario del Treppo e in prima istanza da mio padre, pure lui crociano. Credo di averne colto la filosofia, cioè che è fondamentale dare un indirizzo preciso al proprio lavoro, eliminando, a costo di rimetterci, ogni compromesso, ogni imposizione da qualcuno sopra di noi o peggio da noi stessi, quando ci si sente costretti a fare qualcosa che non ci piace. La mia vita è andata così: ho sempre, o quasi sempre, fatto, a scapito della mia carriera lavorativa, ciò che più desideravo, in primis viaggiare – non è un fatto negativo come sosteneva Pavese quando diceva che “viaggiare è una brutalità”, ma al contrario ti permette di vivere più volte – in secondo luogo poter fissare le mie emozioni fotografando e scrivendo, onde poter rivivere al meglio, pienamente, i lati belli della vita.

 

Trieste, 28 novembre 2024

 

Giacomo Garzya

Poetry has always been an important part of my life, representing a continuous existential search: my restlessness, history as memory, loves, places, nature, the wind and the sea that drives all things, my Mediterranean and Nordic roots, up to the mourning for the tragic death of my daughter Fanny. Intensive reading of the classics had a great impact on my early education, especially the Homeric Poems, Sappho and the other Lyrics (in the translation by Salvatore Quasimodo), Catullus, Horace, Foscolo, Cavafy, Garcìa Lorca, Ungaretti, Dostoevsky, Hemingway, de Saint-Exupéry, Malaparte and Fallaci. English: As for style, as Giuseppe Galasso already noted in 2001 in the preface to my second book of poems “Maree”, “Garzya’s verses are… light, they flow with the naturalness of spontaneity that dictated them even when they are full… of famous names, of historical and literary topoi”. In fact, style has a specific weight in writing: Francesco De Sanctis said that “form is the thing”, but the indispensable use of the main rules of rhetoric – poetry is not prose – and the evocative power of words, linked to personal lexical baggage (the Greek word “Logos”, therefore, in its two meanings of word and thought, many words many thoughts), are not enough by themselves, without a creative inspiration made of emotions, the “lyrical I”, the personal history of yesterday and today, as long as it becomes universal. Therefore form and content, according to the Leopardian lesson that defined Vincenzo Monti as “poet of the ear and of the imagination, but not of the heart”. The immediacy, then, with which I have written many poems does not mean spontaneous writing, but sedimented thoughts, which come out when they must, when they are mature. My thirty-year poetic journey, if we do not consider the youthful years, wants to cultivate first of all the “lyrical I”, to be an introspection not intimate, but universal, wants to be autobiographical, a “novel of life”, in the style of Umberto Saba, a diary of the soul, not only mine, but of all the souls led to think, to reflect on the meaning of their existence, in its flow between past experiences and new emotions; finally, my poetry, from the beginning, has also wanted to be an antidote against the oblivion of time, preserving the values ​​of our civilization, always keeping alive the affections, which allow us to survive in a world often hostile, not always or not really friendly. Since I was a child, my father Antonio – a polyglot (he spoke eight languages ​​fluently), an eminent classical philologist and Byzantine scholar, professor of Greek literature at the Federico II University of Naples, as well as of medieval Greek at the Sorbonne and “associé étranger de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres” – my first teacher, instilled in me the value of universality and when I write I question myself, thinking of others. Surely in my poems, over the years, you can also read a process of maturation towards historical, social, religious, environmental themes, not only, therefore, linked to introspective and intimate inspirations, which are also a consistent part of my production. My poetry, finally, defined by some critics, “neo-humanistic”, often experienced in the first instance with loved ones, is an invitation to live beautiful things with joy, forcefully reiterating my quote from Oscar Wilde, in my first poetic anthology of 1998, “Solaria”: “those who find beautiful meanings in beautiful things, are cultured people. For these there is hope”. Beauty, therefore, not an end in itself but historicized, which makes oneself and others feel at peace, in dialectical opposition to pain, to the drama of death. Pain, doubt, oppression, however, remain the true engines of existence, harbingers of creativity, freedom, faith, even that of Spinoza’s “Deus sive Natura”, who had deified the entire Cosmos, according to Hegel’s interpretation.

As for my photography, it was born in childhood as a family photographer on summer trips, when with a fixed focus camera, without any pretension, I took pictures while traveling with my family; it was in those years that visiting art museums in various European capitals, I acquired a personal taste, useful for framing photos, from there also the ability to observe landscapes, urban and otherwise, as well as the various types of people encountered. My photography became professional in a few years, after switching to reflex and slides in 1981, with more than satisfactory results, especially when I started taking pictures with Zeiss lenses. This analog path ended in 2009, the year in which I was forced to go digital, firstly because the photographic laboratories, due to the collapse in demand, no longer frequently renewed the acids for developing slides, with disastrous results to say the least, secondly because it was becoming increasingly difficult to find films, their production having decreased worldwide. My photography, then, was first and foremost based on the impressionistic study of light: for some critics, a metaphysics of light aimed at the search for a primordial nature in its fluctuating elements, in an incessant pànta rheî, therefore a study of the four elements, based on the reading of the Greeks, in particular the fragments of Empedocles, which led me to photograph clouds, red sunsets, sea waves, rocks, sunrises on Vesuvius, according to a criterion that would lead to overcoming the purely emotional moment that had wanted them. Water, the primordial element, the earth in continuous transformation, the indomitable fire that stuns, dazzles, that gives light to the scene and heat to our existence, to our imagination, therefore also a chromatic-emotional relationship between elements that interact with each other: Fire-Sun-Light-Energy-Heat-Color-Clouds-Water-Wind-Rock. This research, which lasted many years, partly flowed, as far as the element Water is concerned, into a personal exhibition of mine in 2006 at the Italian Institute for Philosophical Studies “The sea that cannot be seen”. The monographic study on the four elements, only because of my inability to find sponsors, did not materialize, about twenty years ago, in a personal exhibition in Milan and in a volume published in Milan, the Italian capital of photography. Well, these, in addition to the photographic reportages of my travels, are the recurring themes in my photography. As for my analog photography, the slide for me had represented a finished product already at the shot, you could not go wrong, and I already knew the result, good not only for reportage, but above all for creative photography. Even with the digital camera, in reality, with appropriate adjustments and a priori calibrations, photographing mostly with aperture priority, I obtained excellent results, without ever having to resort to “photoshop”, except to adjust, when necessary, the brightness. Although I miss analog photography, for my personal way of understanding photographic rendering, digital photography, especially in reportage and in precarious light conditions, has countless advantages, which I won’t go into here since they are well known, above all that of having an almost unlimited number of shots available and, in the same camera, multiple films, as well as that of not depending on the temperature of the surrounding environment, sworn enemy of slides. Finally, digital photography has opened up a type of art that is more conceptual, surreal, reworked at the table, but which no longer has anything to do with my way of understanding photography, always subjective, but in comparison, certainly more realistic.Today I am not yet, at the age of 72, as Cesare Pavese said at the age of forty, “at the end of the candle”, but I live this phase of my existence with great pleasure, and, after having overcome rather difficult moments in terms of health, my days have always been full, indeed I must say that I have never worked so much in my life, in the sense that I have read a lot, I have photographed a lot and my poems, written from the pandemic period to today, have been permeated not infrequently, by a more historicist vision and by a “strong thought”, to be made to prevail over the so-called “weak thought”. I have had this idealistic legacy from my historical studies, from my Masters Giuseppe Galasso and Mario del Treppo and in the first instance from my father, also a Crocean. I think I have grasped the philosophy, that is, that it is essential to give a precise direction to one’s work, eliminating, at the cost of losing out, every compromise, every imposition from someone above us or worse from ourselves, when we feel forced to do something we don’t like. My life has gone like this: I have always, or almost always, done, to the detriment of my career, what I most desired, first of all traveling – it is not a negative fact as Pavese claimed when he said that “traveling is brutality”, but on the contrary it allows you to live more than once – secondly being able to fix my emotions by photographing and writing, in order to relive the beautiful sides of life at their best, fully.

Trieste, November 28, 2024

 

Giacomo Garzya

PER UNA CRONISTORIA DELLA MIA FOTOGRAFIA:
DALLE DIAPOSITIVE AL DIGITALE

Tutte le mie foto analogiche, rigorosamente diapositive dal 1981, digitalizzate a partire dal 2007 per il mio sito web https://www.maree2001.it, sono state realizzate utilizzando pellicole a colori nel formato 35 mm (24×36 mm), standard per le Reflex, spesso a bassa sensibilità, in buona parte dei casi, Kodachrome prima, poi Ektachrome, 100 ASA, 21° DIN, senza mancare di utilizzare all’occorrenza i 200 ASA, 24° DIN, di rado alte sensibilità, dai 400 ai 1000 ASA. Si sa … ogni fotografo ha la sua pellicola, per me i 100 ASA erano ideali per la mia fotografia prevalentemente all’aperto, in giornate piene di luce, erano anche molto duttili e resistenti, anche alle più alte temperature estive, pur nell’utilizzo costante di borse termiche. Dopo quindici anni di fotografia senza entusiasmo, con una compatta con messa a fuoco fissa, finalmente la scoperta della Reflex nel 1981 grazie ad un regalo di nozze inaspettato: una gloriosa Praktica MTL 3 della DDR con innesto a vite e con tempi da un secondo a 1/1000. Pochi anni dopo il passaggio alla Yashica FX-D QUARTZ, parente povera della Contax 139, con davvero poche differenze se non il prezzo, ma con la possibilità di utilizzare l’eccellente ottica Zeiss (28mm f/ 2,8 Distagon T e 50mm f/1,7 Planar T). Al di là di questa ottica professionale, l’onnipresente Tamron (35-210mm). Dagli inizi degli anni Novanta fino alla fine del 2008, quindi per una ventina d’anni, ho fotografato con una Contax 167 MT con l’ottica Zeiss che già avevo arricchita con un 85mm f/1,4 Planar T, con un 135mm f/2,8 Sonnar T, con un 35-70mm f/3,4 Vario-Sonnar . La 167 MT, con l’aggiunta decisiva dei nuovi obiettivi, una vera opera d’arte l’85 mm, fu uno dei maggiori successi di Kyocera, mi rese felice e fu molto preziosa per l’alta qualità raggiunta dalla mia fotografia, incentrata sul paesaggio marino, rurale e urbano, con un grande utilizzo del 135 mm, per i ritratti il mitico 85mm ; nelle foto nei viaggi , per i miei reportages predilessi il 35-70mm; dalla metà degli anni Novanta, raramente utilizzai il 28 mm, da me così amato negli anni Ottanta. Come seconda macchina, anche se molto di rado, utilizzò una Yashica FX-3 super 2000.
Dal 2009 giocoforza passai al digitale. Vi fui costretto perché lo sviluppo delle diapositive, per il crollo della domanda, era diventato scadente perché non si rinnovavano più con frequenza gli acidi per il necessario processo chimico. L’ultima fase, quella dello sviluppo, come è noto, era infatti fondamentale per una diapositiva e senz’appello. In più diventava sempre più difficile acquistare rollini di diapositive Kodak, non solo in Italia. Nei miei viaggi in Austria, Belgio, Canada, Cina, Croazia, Cuba, Danimarca, Egitto, Finlandia, Francia, Germania, Gibilterra, Giordania, Grecia, Hong Kong, Inghilterra, Irlanda, Irlanda del Nord, Italia, Malta, Marocco, Mauritius, Norvegia, Olanda, Romania, Turchia, Palestina, Perù, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Stati Uniti, Uzbekistan, ho praticato la fotografia utilizzando una Canon 450 D, con quattro obbiettivi : 18-55, 85, 24-105 e 70-300 mm.
Di rado, nel passato, ho utilizzato anche cellulari con fotocamere di qualità, tuttavia oggi, a 71 anni, pur fotografando nuovamente con grande entusiasmo, dopo un periodo di stasi per motivi di salute, preferisco non utilizzare più apparecchi reflex o “mirrorless”, bensì uno smartphone, il Samsung Galaxy S23 Ultra, assai evoluto, che possiede un sensore di ultima generazione e quattro obiettivi di alta qualità. Questo apparecchio rappresenta una grande evoluzione rispetto a solo due anni fa ed è stato in grado di farmi realizzare ottime stampe fino al formato 100×70 cm.
Quanto alla collocazione pubblica e permanente delle mie foto, realizzai, consigliato e sollecitato da amici fotografi di professione, dopo la mia esposizione di foto analogiche “Vesuvio all’alba”, dal 19 ottobre al 19 novembre 2006 al PAN (Palazzo delle Arti di Napoli) e dal 12 gennaio all’11 febbraio 2007 a Roma, al Vittoriano, un mio sito web https://www.maree2001.it “Giacomo Garzya – Le Immagini e la Poesia”.

All my analog photos, strictly slides since 1981, digitalized starting in 2007 for my website https://www.maree2001.it, were made using color films in 35 mm format (24×36 mm), standard for SLRs, often with low sensitivity, in most cases, Kodachrome first, then Ektachrome, 100 ASA, 21° DIN, without failing to use 200 ASA, 24° DIN when necessary, rarely high sensitivity, from 400 to 1000 ASA. You know … every photographer has his own film, for me the 100 ASA were ideal for my photography mainly outdoors, on days full of light, they were also very flexible and resistant, even at the highest summer temperatures, despite the constant use of thermal bags. After fifteen years of photography without enthusiasm, with a compact with fixed focus, finally the discovery of the Reflex in 1981 thanks to an unexpected wedding present: a glorious Praktica MTL 3 from the DDR with screw mount and with speeds from one second to 1/1000. A few years later the switch to the Yashica FX-D QUARTZ, poor relation of the Contax 139, with very few differences except the price, but with the possibility of using the excellent Zeiss optics (28mm f/ 2.8 Distagon T and 50mm f/1.7 Planar T). Beyond this professional optic, the omnipresent Tamron (35-210mm). From the early nineties until the end of 2008, so for about twenty years, I photographed with a Contax 167 MT with Zeiss lenses that I had already enriched with an 85mm f/1.4 Planar T, with a 135mm f/2.8 Sonnar T, with a 35-70mm f/3.4 Vario-Sonnar. The 167 MT, with the decisive addition of the new lenses, a true work of art the 85 mm, was one of the greatest successes of Kyocera, it made me happy and was very precious for the high quality achieved by my photography, focused on marine, rural and urban landscapes, with a large use of the 135 mm, for portraits the legendary 85 mm; in travel photos, for my reportages I preferred the 35-70 mm; since the mid-nineties, I rarely used the 28 mm, which I loved so much in the eighties. As a second camera, although very rarely, I used a Yashica FX-3 super 2000.
In 2009 I was forced to switch to digital. I was forced to do so because the development of slides, due to the collapse in demand, had become poor because the acids for the necessary chemical process were no longer renewed frequently. The last phase, that of development, as is known, was in fact fundamental for a slide and without appeal. In addition, it was becoming increasingly difficult to buy rolls of Kodak slides, not only in Italy. In my travels to Austria, Belgium, Canada, China, Croatia, Cuba, Denmark, Egypt, Finland, France, Germany, Gibraltar, Jordan, Greece, Hong Kong, England, Ireland, Northern Ireland, Italy, Malta, Morocco, Mauritius, Norway, Holland, Romania, Turkey, Palestine, Peru, Poland, Portugal, Czech Republic, Slovakia, Slovenia, Spain, Sweden, United States, Uzbekistan, I practiced photography using a Canon 450 D, with four lenses: 18-55, 85, 24-105 and 70-300 mm.
In the past, I have also rarely used cell phones with quality cameras, however today, at 71 years old, although I am again taking pictures with great enthusiasm, after a period of inactivity for health reasons, I prefer not to use reflex or “mirrorless” cameras anymore, but a smartphone, the Samsung Galaxy S23 Ultra, very advanced, which has a latest-generation sensor and four high-quality lenses. This device represents a great evolution compared to just two years ago and has been able to make excellent prints up to 100×70 cm format.
As for the public and permanent placement of my photos, I created, advised and urged by professional photographer friends, after my exhibition of analog photos “Vesuvius at dawn”, from October 19 to November 19, 2006 at the PAN (Palazzo delle Arti in Naples) and from January 12 to February 11, 2007 in Rome, at the Vittoriano, my own website https://www.maree2001.it “Giacomo Garzya – Le Immagini e la Poesia”.

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INTERVISTE D'AUTORE - GIACOMO GARZYA

“Il riverbero delle parole” e “Le vie dell’immagine” sono le sue ultime fatiche artistiche. La prima è una silloge poetica mentre il secondo è un libro fotografico, lei stesso infatti si definisce “poeta e fotografo”. Quando è avvenuto il primo incontro con queste due arti? C’è una tra le due che considera più indispensabile nella sua vita? Se sì, quale?

Il primo approccio alla fotografia risale alla mia infanzia, quando con un apparecchio a fuoco fisso, senza nessuna pretesa, fotografavo viaggiando con la mia famiglia; fu in quegli anni che visitando musei d’arte nelle varie capitali europee, acquisii un gusto personale, utile per inquadrare le foto. Nel 1981 avvenne il mio passaggio alla reflex e alle diapositive, con risultati più che soddisfacenti, anche per la qualità della mia macchina professionale Contax e per gli obiettivi Zeiss. Questo percorso analogico si conclude nel 2009, l’anno in cui fui costretto al digitale. La poesia pure nasce presto, in parallelo alla lettura intensiva dei classici, ma si interrompe intorno ai vent’anni, prevalendo l’interesse verso i miei studi storici, per riprendere dal 1993 fino a oggi. La capacità di osservazione come fotografo dei paesaggi, urbani e non, nonché delle persone incontrate, ha avuto molta influenza nell’elaborazione della mia poesia, al di là dei già importanti e imprescindibili elementi culturali e interiori e, a detta della critica, sia fotografia che poesia sono sempre andate avanti di pari passo, interconnettendosi, fino all’ultimo quinquennio quando ha prevalso nettamente la poesia. La mia fotografia, è quindi complementare alla mia poesia, in cui si riversano la mia esperienza di vita, la mia inquietudine, la profondità degli affetti, il lutto, or sono quindici anni, per la perdita precoce, tragica, della mia adorata figlia Fanny.

Quale tra le poesie contenute ne “Il riverbero delle parole” sente più cara o rispecchia maggiormente il suo Io poetico e perché?

Sento tutte le mie poesie come mie creature, mie figlie, ogni silloge (sedici dal 1998 a oggi) rappresenta le varie fasi della mia vita, a tutte sono egualmente legato, anche perché in trent’anni di produzione poetica, esprimo un diario innanzitutto dell’anima. Le radici, i luoghi, la natura, gli affetti entrano nel mio percorso poetico, ma su tutto, il vento, che domina il nostro vivere, come il mare. Credo che la sostanza del mio fare sia un invito a vivere con gioia le cose belle, in contrapposizione dialettica al dolore, al dramma della morte, che comunque sono il vero motore dell’esistenza e che inducono alla creatività e alla libertà. Sicuramente nelle mie poesie vi si legge un iter di maturazione anche verso tematiche storiche, sociali, religiose, ambientali, non solo, quindi, legato a ispirazioni introspettive e intimistiche, pur sempre universali. Ne “Il riverbero delle parole, l’ultima poesia “Per i miei settanta…” è un bilancio esistenziale e rappresenta il mio attuale pensiero, il mio Io poetico.

Quali sono i suoi punti di riferimento letterari? Quali autori l’hanno più influenzata a livello stilistico e perché?

In primo luogo i Poemi omerici, quindi i Lirici greci, Catullo, Orazio per arrivare a Foscolo, Garcìa Lorca e Ungaretti. Anche, per la prosa, sempre a livello stilistico, Malaparte, Hemingway e de Saint-Exupéry. Il perché è legato proprio ai molteplici riverberi emotivi che questi classici universali mi hanno suscitato fin da ragazzo.

“Le vie dell’immagine” è un mix di fotografie analogiche e digitali. Crede che l’avvento del digitale abbia portato solo miglioramenti alla fotografia oppure rimpiange la tecnica analogica?

Come ho detto, a proposito della prima domanda, fui condizionato a passare al digitale nel 2009: costretto perché il miglior laboratorio della mia città, a cui mi ero quasi sempre rivolto per lo sviluppo delle diapositive, per il crollo della domanda, non rinnovava più con frequenza gli acidi per il necessario processo chimico, con risultati a dir poco disastrosi. L’ultima fase, quella dello sviluppo, come è noto, è infatti fondamentale per una diapositiva e senz’appello. In più diventava sempre più difficile acquistare rollini di diapositive Kodak, la pellicola professionale che quasi sempre avevo usato. La diapositiva per me rappresentava un prodotto finito già allo scatto, non si poteva sbagliare, e già ne conoscevo il risultato, buono non solo per il reportage, ma soprattutto per la fotografia creativa. Con l’apparecchio digitale, fin dall’inizio, con opportuni accorgimenti e tarature a priori, fotografando per lo più con priorità dei diaframmi, ho ottenuto ottimi risultati, senza mai arrivare al “photoshop”, se non per regolare, quando necessario, la luminosità. Pur rimpiangendo la fotografia analogica, per una mia personale modalità di intendere la resa fotografica, basata sullo studio impressionistico della luce, finalizzata anche alla mia ricerca sui quattro elementi, il digitale, specie nel reportage e nelle precarie condizioni di luce, presenta innumerevoli vantaggi, che non sto qui a dire tanto sono noti, su tutti quello di avere a disposizione un numero incredibile di scatti, pur fotografando io sempre in formato RAW, e nella stessa macchina molteplici pellicole, nonché quello di non dipendere dalla temperatura dell’ambiente circostante, nemico giurato delle diapositive: l’eccessivo freddo e il troppo caldo, tanto da essere sempre costretti alla borsa termica. Infine la fotografia digitale ha aperto da più di un decennio a quella concettuale, surreale, rielaborata a tavolino, per esempio quella del grande fotografo francese Michel Kirch, arte questa che dà risultati eccellenti, ma che non ha più niente a che fare col mio modo di intendere la fotografia, sempre soggettiva, ma al confronto, senz’altro più realistica.

(Intervista inserita in blog.dantebus.com il 6 marzo 2023)

 

“The reverberation of words” and “The ways of the image” are his latest artistic efforts. The first is a poetic sylloge while the second is a photographic book, in fact you define yourself as a “poet and photographer”. When did you first encounter these two arts?

Is there one of the two that you consider more indispensable in her life? If so, which one? The first approach to photography dates back to my childhood, when I photographed traveling with my family with a fixed focus device, without any pretensions; it was in those years that by visiting art museums in the various European capitals, I acquired a personal taste, useful for framing photos. In 1981 I switched to reflex and slides, with more than satisfactory results, also due to the quality of my professional CONTAX camera and ZEISS lenses. This analog journey ends in 2009, the year I was forced into digital. Poetry too was born early, in parallel with the intensive reading of the classics, but stopped around the age of twenty, the interest in my historical studies prevailing, to resume from 1993 until today. The ability to observe as a photographer of landscapes, both urban and otherwise, as well as of the people I met, had a lot of influence in the elaboration of my poetry, beyond the already important and essential cultural and interior elements and, according to the critics, both photography what poetry have always gone hand in hand, interconnecting, until the last five years when poetry clearly prevailed. My photography is therefore complementary to my poetry, in which my life experience, my restlessness, the depth of affections, the mourning, fifteen years ago, for the early, tragic loss of my beloved daughter Fanny are poured.

Which of the poems contained in “The reverberation of words” do you feel dearest or most reflects your poetic ego and why?

I feel all my poems as my creatures, my daughters, each sylloge (sixteen from 1998 to today) represents the various phases of my life, I am equally attached to all of them, also because in thirty years of poetic production, I express a diary above all of ‘soul. Roots, places, nature, affections enter my poetic journey, but above all, the wind, which dominates our lives, like the sea. I believe that the substance of my work is an invitation to live beautiful things with joy, in dialectical opposition to pain, to the drama of death, which in any case are the real engine of existence and which lead to creativity and freedom. Surely in my poems we can read a process of maturation also towards historical, social, religious, environmental themes, not only, therefore, linked to introspective and intimate inspirations, still universal. In “The reverberation of words, the last poem “For my seventy…” is an existential balance and represents my current thought, my poetic ego.

What are your literary reference points? Which authors have most influenced you stylistically and why?

First the Homeric Poems, then the Greek Lyricist, Catullus, Horace to get to Foscolo, Garcìa Lorca and Ungaretti. Also, for prose, always on a stylistic level, Malaparte, Hemingway and de Saint-Exupéry. The reason is linked precisely to the many emotional reverberations that these universal classics have aroused in me since I was a boy.

“Le vie dell’immagine” is a mix of analogue and digital photographs. Do you believe that the advent of digital has only brought improvements to photography or do you regret the analog technique?

As I said, regarding the first question, I was conditioned to switch to digital in 2009: forced because the best laboratory in my city, to which I had almost always turned to for the development of the slides, due to the collapse in demand, no longer renewed frequently the acids for the necessary chemical process, with disastrous results to say the least. The last phase, that of development, as is known, is in fact fundamental for a slide and without appeal. In addition, it became more and more difficult to buy rolls of Kodak slides, the professional film that I had almost always used. For me, the slide represented a finished product right from the click, you couldn’t go wrong, and I already knew the result, good not only for reportage, but above all for creative photography. With the digital camera, right from the beginning, with appropriate expedients and a priori calibrations, photographing mostly with aperture priority, I have obtained excellent results, without ever reaching the “photoshop”, except to adjust, when necessary, when necessary, the brightness. While regretting analog photography, due to my personal way of understanding photographic rendering, based on the impressionistic study of light, also aimed at my research on the four elements, digital photography, especially in reportage and in precarious light conditions, has countless advantages, I’m not here to say so much they are known, above all that of having an incredible number of shots available, even though I always photograph in RAW format, and in the same camera multiple films, as well as that of not depending on the temperature of the surrounding environment, sworn enemy of slides: excessive cold and too hot, so as to always be forced to the thermal bag. Finally, for more than a decade, digital photography has opened up to the conceptual, surreal, reworked at the table, for example that of the great French photographer Michel Kirch, an art that gives excellent results, but which no longer has anything to do with my way to understand photography, always subjective, but in comparison, certainly more realistic.

(Interview posted on blog.dantebus.com on March 6, 2023)

 

GIACOMO GARZYA - IMMAGINI E PAROLE: DUE PERCORSI PARALLELI

(ARTICOLO CHE HO SCRITTO PER IL BLOG.DANTEBUS.COM, RELATIVO ALLA PUBBLICAZIONE DEL MIO LIBRO FOTOGRAFICO : “FRAMMENTI DI MEDITERRANEO”, ROMA 2023, DANTEBUS EDIZIONI)

Avendo voluto fare un bilancio della mia vita a 70 anni, come fotografo, ho pensato di pubblicare, una retrospettiva, da completare in un prossimo futuro, un’estrema sintesi dei miei reportage di più di trent’anni, a partire dalla fine degli anni Ottanta, in due volumi con più di 360 foto. Il primo “Le vie dell’immagine”, dal carattere più generale, il secondo, di cui si parla ora, invece, monotematico “Frammenti di Mediterraneo”, tale da rappresentare il mio concetto di Mediterraneo, il mare di Fernand Braudel, così importante nella mia ispirazione poetica, a partire dal mio primo libro di poesie “Solaria” del 1998. Ma è proprio questo mio primo libro a far riemergere una vocazione giovanile, quella di esprimermi attraverso la voce della poesia, e i luoghi da me visitati, quelli amati e più volte rivisitati, da immagini si trasformarono in parole, quindi l’uso di due linguaggi, due percorsi paralleli. Va subito detto che in “Frammenti di Mediterraneo”, i luoghi nelle foto sono innanzitutto emozioni, le foto rappresentando, spesso con le poesie scritte lì seduta stante, un diario dell’anima, esprimendosi così insieme, con due codici diversi, gli aspetti emozionali del momento, che variano col mutare della luce, dei colori, dei grigi della nostra vita. Il tutto fa parte di un viaggio, metafora della vita, dove vi è una ricerca del bello, il ritorno alle radici, un viaggio inteso non da turisti, ma da viaggiatori, alla Alain De Botton, già memore io del passato, attraverso i resoconti appassionanti dei Montaigne, Charles de Brosses, Montesquieu, Stendhal, Goethe, fino alle riflessioni letterarie, artistiche e politiche nei Reisbilder di Heinrich Heine. Fotografia e poesia, poesia e fotografia, quindi un tutt’uno inscindibile, in cui si riversano la mia esperienza, la mia inquietudine esistenziale, gli affetti per la terra di origine, la mia formazione storicista, le letture dei Poeti greci e del Kavafis di “Itaca”. L’immediatezza, poi, con cui ho scritto molte poesie è simile allo scatto subitaneo di certe foto, per non perdere il bello in quell’attimo, che si para dinanzi e che può svanire in qualche minuto secondo. Ne “I frammenti di Mediterraneo” non tralascio la quintessenza della nostra civiltà, il mare, esso traspare ovunque, è l’ anima in tante foto, come la macchia mediterranea o le colonne dei templi greci. Infine, la mia fotografia vuole essere anche una ricerca del bello inteso alla Oscar Wilde, una risposta quindi al mondo in cui viviamo, dove certi valori si vanno dimenticando, oggi il regno del Kitsch, del cattivo gusto studiato da Gillo Dorfles o del Trash più volgare. Sul piano stilistico e artistico, un debito l’ho, in particolare, col Mimmo Jodice del Mediterraneo. Sul mio percorso fotografico (foto di paesaggi marini, urbani e rurali), sul passaggio al digitale, ecc., leggere l’intervista fattami dalla Dantebus il 6 marzo 2023 per il suo blog e in dettaglio nel mio sito web: https://www. maree2001.it ( “Photo gallery”).

Trieste, 25 gennaio 2024

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(ARTICLE I WROTE FOR THE BLOG.DANTEBUS, RELATING TO THE PUBLICATION OF MY PHOTOGRAPHIC BOOK: “FRAMMENTI DI MEDITERRANEO”, ROME 2023, DANTEBUS EDITIONS)

Having wanted to take stock of my life at 70 years old, as a photographer, I thought of publishing a retrospective, to be completed in the near future, an extreme summary of my reportages of more than thirty years, starting from the end of the Eighty, in two volumes with more than 360 photos. The first “The streets of the image”, with a more general character, the second, which is now being discussed, is monothematic “Fragments of the Mediterranean”, such as to represent my concept of the Mediterranean, the sea of Fernand Braudel, so important in my poetic inspiration, starting from my first book of poems “Solaria” in 1998. But it is precisely this first book of mine that brings out a youthful vocation, that of expressing myself through the voice of poetry, and the places I visited, those loved and revisited many times, transformed from images into words, therefore the use of two languages, two parallel paths. It must be said immediately that in “Fragments of the Mediterranean”, the places in the photos are first and foremost emotions, the photos representing, often with the poems written there on the spot, a diary of the soul, thus expressing the emotional aspects together, with two different codes of the moment, which vary with the changing light, colors and grays of our life. It is all part of a journey, a metaphor for life, where there is a search for beauty, a return to the roots, a journey intended not by tourists, but by travellers, à la Alain De Botton, already mindful of the past, through the reports exciting works by Montaigne, Charles de Brosses, Montesquieu, Stendhal, Goethe, up to the literary, artistic and political reflections in Heinrich Heine’s Reisbilder. Photography and poetry, poetry and photography, therefore an inseparable whole, in which my experience, my existential restlessness, my affection for my land of origin, my historicist training, my readings of the Greek Poets and of Kavafis of “Ithaca”. The immediacy, then, with which I have written many poems is similar to the sudden taking of certain photos, so as not to lose the beauty in that moment, which appears before us and which can vanish in a few minutes. In “The fragments of the Mediterranean” I do not leave out the quintessence of our civilization, the sea, it shines through everywhere, it is the soul in many photos, like the Mediterranean scrub or the columns of Greek temples. Finally, my photography also wants to be a search for beauty as understood by Oscar Wilde, therefore a response to the world in which we live, where certain values are being forgotten, today the reign of Kitsch, of bad taste studied by Gillo Dorfles or of the most Trash vulgar. On a stylistic and artistic level, I owe a debt, in particular, to Mimmo Jodice of the Mediterranean. On my photographic journey (photos of marine, urban and rural landscapes), on the transition to digital, etc., read the interview given to me by Dantebus on 6 March 2023 for its blog and in detail on my website: https:// www. maree2001.it (“Photo gallery”).

Trieste, January 25, 2024

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sulla pagina della cultura di "IUPPITER NEWS. Storie, attualità, passioni e media", pubblicata il 30 maggio 2024

“Giacomo Garzya, l’arte del poeta fotografo. Successo per i nuovi libri ‘Frammenti del Mediterraneo’ e ‘Le vie dell’immagine’ “
di Mario Vittorio D’Aquino

Il viaggio come mezzo per raccontare la poesia attraverso le fotografie. Questo è al centro delle ultime opere di Giacomo Garzya, classe 1952, partenopeo d’origine ma cittadino del mondo, laureato in Lettere Moderne alla Federico II di Napoli, appassionato di scrittura e di istantanee. Napoli, Venezia, Gerusalemme, Fes, Casablanca, Zante, Procida, Capri, Creta, Santorini, Mykonos, Parigi, Cetara, Karpathos, Mauritius, Sifnos, Delos, Malta, Gallipoli, Taormina sono solo alcune delle tappe che fanno da sfondo ai soggetti che Garzya ha scelto di immortalare nei suoi scatti. Queste località sono state d’ispirazione al bardo della macchina fotografica per i suoi ultimi lavori pubblicati nel 2023 con Dantebus Edizioni: Le vie dell’immagine e Frammenti del Mediterraneo. Due raccolte emozionanti di immagini che svelano la meraviglia dei luoghi, la storia scolpita nei monumenti, il segreto di antiche culture contenute in due reportage ricchi di illustrazioni che si rivolgono alla sfera umana più ancestrale, sconosciuta e inesplorata. Dall’estremo Oriente alle Colonne d’Ercole, da Marrakech a Istanbul passando per Tel Aviv, Garzya con i suoi ultimi libri allestisce un intenso mosaico di scatti che sprigionano poesia e colore, scavando con la potenza di un clic nelle profonde passioni, negli arcani misteri, nelle bellezze ignote dei luoghi del mito che sceglie di visitare. Le opere sono due maestosi archivi di tessere che viaggiano attraverso le epoche, frammenti narranti dello splendore del tutto capaci di accendere il cammino del sentiero della vita. Oltre alla fotografia l’altra passione per il viaggiatore dell’anima è la prosa. Giacomo Garzya, ex professore di materie letterarie, ha partecipato infatti come finalista a diversi concorsi poetici. Nel 2023 ha ricevuto una “menzione speciale al merito” all’ottava edizione del Premio Internazionale “Salvatore Quasimodo”, presieduto dal figlio del celebre letterato Alessandro. Dal 1998 a oggi ha visto concretizzarsi la passione per la poesia pubblicando sedici libri monografici, ultimo dei quali Il riverbero delle parole (Dantebus Edizioni, 2023). Trasferitosi da Napoli vive ormai da diversi anni a Trieste, città di storia e di mare, che affonda le sue radici culturali tra l’Italia culla del Mediterraneo e il fascino austero della Mitteleuropea. Non ha mai abbandonato il suo piglio partenopeo che, insieme al suo sconfinato bagaglio culturale, ha consentito a Giacomo Garzya di entrare a far parte stabilmente nei più importanti salotti intellettuali triestini facendo conoscere a tutti la sua passione per il genere letterario e per l’arte dello scatto.

 

“Giacomo Garzya, the art of the poet photographer. Success for the new books ‘Fragments of the Mediterranean’ and ‘The streets of the image’ “,
by Mario Vittorio D’Aquino

Travel as a means of telling poetry through photographs. This is at the center of the latest works by Giacomo Garzya, born in 1952, Neapolitan by origin but citizen of the world, graduated in Modern Literature at the Federico II of Naples, passionate about writing and snapshots. Naples, Venice, Jerusalem, Fes, Casablanca, Zakynthos, Procida, Capri, Crete, Santorini, Mykonos, Paris, Cetara, Karpathos, Mauritius, Sifnos, Delos, Malta, Gallipoli, Taormina are just some of the stages that form the backdrop to the subjects that Garzya chose to immortalize in his shots. These locations were the inspiration for the bard of the camera for his latest works published in 2023 with Dantebus Edizioni: The streets of the image and Frammenti del Mediterraneo. Two exciting collections of images that reveal the wonder of the places, the history carved into the monuments, the secret of ancient cultures contained in two reportages full of illustrations that address the most ancestral, unknown and unexplored human sphere. From the Far East to the Pillars of Hercules, from Marrakech to Istanbul passing through Tel Aviv, Garzya with his latest books sets up an intense mosaic of shots that release poetry and colour, digging with the power of a click into the profound passions, the arcana mysteries, in the unknown beauties of the mythical places he chooses to visit. The works are two majestic archives of tiles that travel through the ages, narrating fragments of the splendor completely capable of lighting the path of the path of life. In addition to photography, the other passion for the traveler of the soul is prose. Giacomo Garzya, former professor of literary subjects, has in fact participated as a finalist in various poetry competitions. In 2023 he received a “special mention of merit” at the eighth edition of the “Salvatore Quasimodo” International Award, chaired by the son of the famous writer Alessandro. From 1998 to today he has seen his passion for poetry materialize by publishing sixteen monographic books, the latest of which is Il reverbero delle parole (Dantebus Edizioni, 2023). Having moved from Naples, he has now lived for several years in Trieste, a city of history and the sea, which has its cultural roots between Italy, the cradle of the Mediterranean and the austere charm of Central Europe. He never abandoned his Neapolitan attitude which, together with his boundless cultural background, allowed Giacomo Garzya to become a permanent member of the most important intellectual salons in Trieste, making his passion for the literary genre and for art known to everyone. of the shot.

 

GIACOMO GARZYA PRESENTÒ ANTONIO CANIPAROLI IN OCCASIONE DELLA SUA MOSTRA FOTOGRAFICA "POUSSIÈRES DU NEPAL" (ROUEN E PARIGI, AMBASCIATA DEL NEPAL, MAGGIO - GIUGNO 2003).

Il suo testo dattiloscritto è del 1° febbraio 2003, tradotto in francese da sua madre belga Jacqueline Garzya Peeters.

Nepal, 2002 (foto di Antonio Caniparoli)

UN CARO RICORDO, NEL PENSIERO DI CHI NON C'È PIÙ: GLI INDIMENTICABILI FELICE ZOENA E MIA SORELLA CHIARA

PRESENTAZIONE ALL'ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI (NAPOLI, PALAZZO SERRA DI CASSANO, 29 APRILE 2015) DELLA MIA UNDICESIMA RACCOLTA DI POESIE "UNA SPECCHIERA", NAPOLI 2015. NELLA FOTO SCATTATA DA FRANCESCO ZOENA, I COMPIANTI CHIARA GARZYA E FELICE ZOENA.

GIACOMO GARZYA AL PALAZZO DELLE ARTI DI NAPOLI

AL PAN (PALAZZO DELLE ARTI DI NAPOLI) CON LE MIE FOTOGRAFIE "VESUVIO ALL'ALBA" NEL GIORNO DELL'INAUGURAZIONE DELLA MOSTRA "NAPOLI E IL SUO VULCANO" (21 OTTOBRE-19 NOVEMBRE 2006). TALI FOTO FURONO POI RIESPOSTE A ROMA, AL VITTORIANO, DAL 12 GENNAIO AL'11 FEBBRAIO 2007 (LA FOTO E' DELL'AMICA GIORNALISTA ANGELA MATASSA).

Foto di Giacomo Garzya, esposte nella sua prima mostra fotografica "Forti affetti", 4-13 maggio 1994, Napoli, Palazzo Pignatelli

Pescatori a Gallipoli, 23 agosto 1988
Terra d'Otranto, 25 agosto 1988