Chi
si mette per il cammino della poesia, può percorrere vie ampie e
piatte oppure impervi sentieri, segnando il passo su cadenze misurate
o trascorrendo liberamente secondo la legge e la voglia che è sua
propria. Ed è con quest'ultimo andamento che il cammino di Giacomo
Garzya conduce del pari a luoghi e a tempi.
Il tempo sembra essere il tèma dominante, l'idea che maggiormente
l'attrae sin dal titolo che impone a questa sua terza raccolta,
al tempo proprio nella composizione d'inizio chiede di poter penetrare
la sua natura, di liberamente guardare la vita. E il tempo si fa
di volta in volta riconoscimento delle proprie radici, godimento
dell'attimo presente, memoria dell'esperienza diretta, memoria della
storia.
Vorrei súbito dire che la raccolta, fin dalla prima lettura, m'è
apparsa come una voluta esplorazione di sé da parte dell'autore,
costantemente accompagnata dalla coscienza che, mettendosi in viaggio,
ciò che non si ritroverà giammai è proprio il tempo e l'essere dell'inizio.
Persino il ricorso alla solitudine, ch'egli rivela spesso senza
reticenze e che è sempre composta, senza laceranti esclusioni, mi
appare piuttosto un momentaneo far tacere le voci altrui per ascoltare,
in un pacato e lucido discorso, quella del proprio profondo, a scalzare
la sua scorza, quella appunto che chiama 'mallo coriaceo' o 'tela
grezza'.
Ma ai luoghi si giunge e si ritorna, e le tappe di questo itinerario
sono tante e svariatissime e rappresentano sempre e contemporaneamente
la visione del reale, il vissuto, e il richiamo d'una memoria lontana,
d'una conoscenza acquisita. Il luogo evoca passate letture, suscita
sentimenti, emozioni, impensate sensazioni. Sempre alla visione
d'un luogo c'è come un fortissimo slancio e il lettore può come
palpabilmente cogliere il nascere dell'idea che si fa poi poesia.
Appare qui quasi ovvio l'accostamento con la fotografia, che l'autore
pratica con altrettanto successo. Certo egli ha l'occhio avvezzo
a cogliere tratti e colori, dettagli e atmosfere, che ripropone
poi in quell'unica, particolare ottica come significativo messaggio.
Ebbene tutto questo riesce a riversarsi nella sua poesia, senza
che gli faccia alcuna difficoltà il mutamento del mezzo espressivo,
in luogo d'un obiettivo la piú mutevole, instabile parola che dopo
l'empito del momento creativo costringe quasi sempre a ripensarla.
La geografia della sua raccolta è vasta e disegna un'ampia mappa
del suo intimo, dei suoi ricordi, delle sue passioni. Percorre gli
scenari piú vari, dalle caratteristiche piú contrastanti già a partire
dalle terre delle sue radici, le nordiche 'brughiere' odorose 'd'erica',
'le fitte nebbie', 'la pianura deserta … dai venti battuta ' e d'incontro
la 'terra rossa' con gli 'ulivi … da ventate marine torti come i
rivoli scomposti dei monti'.
Due elementi costantemente presenti nella visitazione o rivisitazione
dei luoghi, anch'essi sempre eguali e pur pronti ad assumere connotati
diversi: il mare e il vento, a motivi conduttori, a chiavi ineludibili
per la decifrazione del suo codice poetico. Il 'mare freddo … del
Baltico … del magico Nord' ammirato attraverso il proprio sogno
di bambino, la nostalgia dell'uomo, e poi il mare greco, e quello
nostro, della nostra città, delle nostre isole che facilmente ravvisiamo,
'l'acqua verde e blu e limpida', 'il mare - che - s'accende nel
solare brillio'.
Oltre al mare l'acqua comunque, quella dei laghi che ora si delineano
placidi e liete visioni suggeriscono gli accenti della tenerezza
negli affetti; ora fan da sfondo ed assieme al vento disegnano il
profilo delle montagne altrettanto amate. Non è segno di contraddizione
l'attrazione verso panorami fisicamente cosí diversi: l'ascesa lungo
pendici difficoltose, la vetta, lo scintillio della luce, che l'altitudine
rende esclusivo, rappresentano appieno quello slancio, che si diceva,
la solitudine, il cammino di sé.
Oltre il mare l'acqua comunque, quella d'un fiume come la Senna,
una sorta di ideale linea di confine, ma non come limite, al contrario
soglia al mondo sconfinato delle aspirazioni piú alte, come le 'stelle
… lontane dalla quotidiana violenza dei fatti, delle parole'.
La composizione dedicata al Lungo Senna apre una breve serie di
poesie per la Francia - paese d'esperienza vissuta, e intensamente,
per l'autore - serie in cui s'intensifica, e sempre piú s'estenderà
nel prosieguo della raccolta, l'estrinsecazione del suo sentire.
Se una differenza è forse possibile rilevare tra questa e le prove
passate, che cedevano prevalentemente alla descrizione, alla rappresentazione,
è proprio nel maggior gusto, la maggiore voglia di narrarsi, la
quale produce anche una maggior saldezza nel linguaggio, come una
sicurezza espressiva. Del linguaggio resta inalterata la scelta
raffinata, colta, ma ispessisce quella 'spontanea levità' che gli
ha riconosciuto Giuseppe Galasso, richiamato nell'Introduzione,
a proposito della precedente raccolta - il cui titolo dà il nome
anche alla prima composizione di questa, a segno, sí, di prosecuzione,
ma pur di nuova partenza -; né piú si possono col Galasso continuare
a negare alla poesia di Garzya 'insospettabili e improbabili profondità'.
Sarebbe dunque il momento di rivolgersi ai tanti temi, ai tanti
significati, alle tante impressioni che trovan spazio in questa
raccolta, col rischio grande di slargar troppo il discorso e poi
anche annoiare. D'altro canto quando si analizza la poesia, quando
la si sminuzza in piccoli tratti, è certo e inevitabile sia l'omettere
sempre qualcosa, il trascurare alcunché che ad altri parrebbe essenziale,
sia il non poter cogliere e rendere il senso e la suggestione che
ha il suo insieme e che a sua volta si offre al lettore come esplicita
significazione, ma anche come suggerimento nascosto. Mi viene quindi
forte la tentazione di procedere ad un semplice, spoglio elenco,
lasciando che ad emozionare siano le emozioni del poeta.
Dirò allora di due presenze forti, l'una estremamente recondita,
come con pudore indicata, il senso del divino; l'altra possente
nel suscitare passione, dolcezza d'amore, esaltazione, dolore. È
l'idea della donna che con prepotenza conduce l'autore, di certo
non all'orlo d'un baratro, ma alla vertigine della sua piú intima
profondità.
Dirò della musica che, riposta nella sua conoscenza, anima poi di
sé stessa un luogo, un personaggio, un mondo spesso finito - penso
alla Juliette di Saint-Germain-des-Prés, alla Rodriguez di Coimbra
(anche il poeta allora intona il suo fado), alla mascagnana Cavalleria
che si chiude col sangue di Turiddu sulla distesa fiorita della
Cunziria -.
Dirò della letizia di dolci affetti, che quasi sempre si esprime
attraverso un enumerare in serie di colori. Ora Giacomo Garzya è
scrittore autonomo da ogni corrente o moda letteraria e avulso da
qualsiasi influenza o imitazione, ma questo suo modo si pone assai
da presso all'esperienza scrittoria d'un rinomato poeta dei nostri
tempi. Sto pensando a I. Ritsos, che fu anche pittore d'ugual livello.
Ritsos è conosciuto in poesia quasi unicamente come il portavoce
della resistenza contro ogni dittatura del suo paese, mentre nella
fase piú avanzata della sua maturità - quando la situazione politica
greca, e la sua vicenda personale, era ormai pacificata - sperimentò
una ricerca di liguaggio che travalicasse i limiti tra poesia e
pittura, tra parola e raffigurazione d'immagine, e in questo suo,
davvero rivoluzionario, tentativo l'evocazione dei colori appare
l'unico codice espressivo, la cui convenzione possa essere comunemente
accettata.
Dirò infine degli spunti che l'autore trae dalla storia. Sono le
ultime composizioni, che rappresentano il segno piú evidente del
come Garzya viva con profonda partecipazione il mondo delle sue
conoscenze. Sono cinque, significativi eventi, in cui la vicenda
del nostro mondo si è trovata a un crocicchio, a imboccare una strada
di non ritorno, al cui approccio l'autore muove con una concezione
poetica e una tecnica di volta in volta diverse.
In Bouillon sullo sfondo di paesaggi contrastanti, ove l'opposizione
è quella dell'Occidente con l'Oriente, l'uomo, quel Goffredo conte
e mai re, è protagonista d'una scelta fatale. In Otrànto l'orda
musulmana che, imprimendo sui mirabili marmi musivi l'onta dello
zoccolo dei cavalli, invase la splendida basilica sovrastante la
cittadina pugliese e ne sterminò in incredibile numero la popolazione,
conduce il pensiero ad antiche ragioni dei fatti dell'oggi, ma vince
il senso della grande commozione. Chiunque abbia visitato il luogo,
ritrova in quell'accento, Otrànto, che è dell'uso locale, la vitalità
della memoria degli abitanti, del loro sentire sempre come attuale
il lontano evento. Evocazione d'atmosfera, pura descrizione di tratti
per Napoli 1822 tra l'esplosione del nostro vulcano e visioni placide
e consuete d'un molo marino.
Una particolare sapienza compositiva unisce 15-18 giugno 1815 e
Praga 1968: Waterloo ricostruita attraverso precisi flashback, i
punti salienti della battaglia scelti con competenza, rivela il
pieno possesso della materia e la capacità di visualizzare la storia,
di darle vita entro il suo stesso scenario; eguale impianto, eguale
tecnica espositiva per le vie e piazze prima festanti della loro
primavera, poi invase dai carri: vita vissuta, storia e cronaca
insieme, prosecuzione d'un viaggio, del viaggio verso il piú umano
degli esiti, il pianto sulla libertà persa, sulla stagione conclusa.
Le cinque composizioni storiche - ma la storia non manca certo di
apparire anche prima -, in rigoroso ordine cronologico (ch'io ho
un po' alterato per ragioni di critica estetica) chiudono la raccolta
slargando, dall'esperienza individuale all'esperienza comune, la
contrapposizione, ma pur la continuazione di Passato e presente.
Manca del tempo la terza categoria ed è quell'avvenire, che, ricco
di produttività, auguriamo all'autore e da lui attendiamo.
ADRIANA PIGNANI
(Presentazione
di "Passato e Presente" di Giacomo Garzya, all'Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 30 gennaio 2003).