"Le
mie poesie come le mie fotografie sono un giornale intimo che non
è intimista. Sin da piccolo mi è stato inculcato il
valore dell'universalità e quando scrivo fotografo, interrogo
me, pensando agli altri." Con queste parole Giacomo Garzya
segna un itinerario di attenzione per il lettore in una pagina d'avvio
a una silloge del 2010 (Il viaggio della vita, D'Auria editore);
è una sintesi concettuale che costituisce la nervatura primaria
di una scrittura che mira alle profonde connessioni tra realtà
interna ed esterna, mentre il poeta cerca dentro di sé quei
punti di contatto con la realtà che giustificano un'appartenenza
a pieno titolo al mondo. Le liriche sono percorse dalla frequenza
di un dolore che diventa cangiante nei toni di sopportabilità
e mutevole nella gradazione della sua incandescenza; qui si sviluppa
una serie di annotazioni perentorie sulla dicotomia tra gioia e
sofferenza, sulle ragioni che fanno prevalere di volta in volta
l'una polarità emotiva sull'altra. Anche quando la metafora
sembra raggiungere l'alta temperatura di una rarefazione del pensiero,
la realtà si presenta nella sua essenza prospettata allo
sguardo e all'animo del lettore con il tono di una colloquialità
mai vernacolare, semmai ridotta alla cifra più prossima alla
sensibilità degli altri, che l'autore si immagina lo ascoltino
per un confronto ideale sulle valenze dell'"esserci" in
una dimensione fisica che seduce con la sua avvincente bellezza
e abbatte con la sua spietata discrezionalità. Il sentimento
percorre nella vasta gamma dei suoi timbri tutta la riflessione
di Giacomo Garzya che è intellettuale legato alle sue radici,
ma quel tanto che gli consente di seguire la curiosità a
conoscere le più diverse particolarità naturali, artistiche
e antropologiche. Sì, perché nella poesia c'è
l'uomo nella sua interezza, l'individuo che guarda a sé e,
nel contempo, è atomo di un universo fatto di mille diversità
nelle cose, nelle persone, nei loro modi di intendere l'esistente.
"Delos" qualifica questa silloge ed è titolo emblematico
che racchiude nella brevità del nome la ricchezza di suggestioni
di cui è capace l'isola greca e il mondo classico che rappresenta;
nella sua fisicità dà corpo all'illusione dell'isola
di Atlantide (immaginaria e simbolica nel pensiero foscoliano delle
"Grazie"), dove bellezza e armonia costituivano l'essenza
di un'atmosfera continuamente generatrice di vita. Il poeta conserva
nella retina la visione spettacolare dei suoi marmi candidi, delle
sue rovine che inducono il visitatore ad affidare alla fantasia
il compito di una virtuale ricomposizione di quel paesaggio, dando
ai resti di una civiltà millenaria la definita completezza
delle origini. È un'avventura dello spirito che innesca una
comunicazione diretta tra Giacomo Garzya e il genius loci, nei confronti
del quale si pone in ascolto registrando quelle energie che servono
a dilatare la tensione lirica in ogni luogo e tempo in cui la necessità
del bello si evochi per la corrispondenza diretta con la realtà
o per il rimpianto dovuto all'"assenza", tema portante
di una frequenza emotiva portata ad attraversare in forma diretta
o mediata tutta l'opera di questo autore. Il poeta, segnato dalla
perdita della sua diletta figlia Fanny, sa che la giovane si è
eclissata dalla possibilità di sguardi ed abbracci, ma è
presenza costante in quei circuiti interiori dove le cose e le persone
care saggiano il pregio dell'eternità. La perdita rende più
poveri e, paradossalmente tanto forti da sopportarne i riflessi.
"Come vorremmo riabbracciare / il sorriso di una persona cara
/ e non vederlo solo nella filigrana / della memoria." E il
valore della vita si fa ancora più forte, anche quando è
frantumato da azioni e proclami, "dove la propria vita si distrugge,/
per distruggere la vita degli altri." Ogni assenza genera un
senso diffuso e inestinguibile di nostalgia, desiderio sottile in
una percettibilità appena accennata, oppure prorompente per
un'accresciuta sensibilità dovuta alla mancanza che può
trasformarsi in nuova energia per innervare la presa d'atto di una
necessità, quella di vivere pienamente anche per integrare
il vuoto della sparizione con il pieno della poesia; questa non
può essere medicamento di una lacerazione forte ma combustibile
per fare ancora molta strada nella geografia complessa dell'esistente,
dove il futuro si struttura anche nelle pacificate tensioni del
presente.
Il poeta affida all'opera il compito di esprimere specularmente
i pensieri, gli stati d'animo, la trepidazione per una realtà
che in troppe occasioni divarica dalle leggi della bellezza, facendo
prevalere la logica della violenza che macchia la storia di efferata
tensione al brutto. Ne è paradigma lampante l'Olocausto,
obbrobrio di un'animalità intollerabile perché "un
tempo lontano fuoco / e sacrificio di agnelli, / disciolse nel sangue
gli umori cattivi / dell'uomo". Fortunatamente la compensazione,
pur parziale, la si trova nelle meraviglie dell'ingegno, come è
la "Primavera" di Botticelli, "fiorita" nella
poesia Zefiro, "il leggero soffio da ponente / la primavera
annuncia / con le sue ghirlande di fiori." Il tono elegiaco
dell'opera si amplifica con la mente proiettata in terre lontane,
a Gerusalemme, sulla spianata del tempio dove la voce di Dio è
inascoltata da parte di coloro che ancora coltivano "odio antico,
rabbia, contesa".
I versi rispondono nel loro ritmo a una norma di musicalità
che modula i propri registri in rapporto al soggetto ispiratore,
variando anche le sfumature d'umore dentro la maggiore o minore
brevità dei concetti tradotti in un'ampia antologia di soluzioni
formali da una vocazione che spinge a trasmettere con immediatezza,
non a "costruire" secondo mestiere. Da qui nasce una poesia
pulita, scritta sull'onda di una generosità che dice parole
per sottolineare la volontà dell'autore di essere nel mondo
cercando una sponda per i suoi tremori e un confronto per le sue
certezze.
Giacomo Garzya apre in questa sua quattordicesima raccolta poetica
un diario intimo, costruito sulle emozioni che in un determinato
tempo e luogo hanno generato il flusso concettuale e lirico delle
composizioni; li ha indicati puntualmente quasi a scandire il proprio
vissuto sulla necessità di comunicare al lettore o all'ascoltatore
la scintilla generatrice del suo sentire consegnato a versi estranei
all'orpello decorativo. La conferma sta anche anche nel libro precedente,
"L'amore come il vento" (Iuppiter edizioni), in cui i
testi citano il motivo della morte, esaltando comunque il valore
della vita. I paesaggi, anche se luminosamente tracciati in punta
di penna, come dire in delicata strategia di evocazione, vivono
su una fisicità che sfuma i propri contorni dentro un complesso
di scrittura che plasma i toni secondo una variabilità che
è direttamente proporzionale al veloce avvicendarsi delle
stagioni, dei suoni, dei colori e si posano sulle evidenze fisiche
e architettoniche dei luoghi, dove Garzya - sembra dircelo con la
voce sommessa e forte della sua espressione regolata secondo le
pulsazioni del mondo interiore - con la forza del suo dire sottolinea
che la poesia abita ovunque e che al poeta è dato intercettare
le sue vibrazioni più segrete. Come fa lui, con la semplicità
di un racconto che parte dal dato autobiografico ma segna confini
di un territorio dove è possibile una generale condivisibilità
da parte di chi legge. E a Delos l'enigma della seduzione parte
proprio dalle forme evidenti della bellezza lasciata in eredità
da un mondo che compensa con i suoi riflessi la oppressiva opacità
del presente.
ENZO
SANTESE