Il
mare che non si vede. Questo è il titolo delle foto che Giacomo
Garzya mette in mostra questa sera e che coprono quasi tutto l'arco
pubblico della sua attività di fotografo, che io sappia.
La prima mostra di Garzya, Forti affetti, è del 1994, la
prima di queste foto è del '95. Nello stesso decennio all'incirca
Garzya pubblica quattro raccolte di versi, Solaria (1998), Maree
(2001), Passato e presente (2002), Il mare di dentro, l'ultima,
del 2005, che anche nel titolo è vicinissima alla mostra
di questa sera. Per avvicinarsi alle foto di questa sera - al di
là della loro bellezza, della raffinatezza delle immagini
- per entrarvi dentro credo sia necessario, almeno per accenni,
riferirle al percorso di questo decennio di Garzya, fotografo e
poeta. Lo chiede lo stesso criterio antologico impiegato, una diacronia
tematica.
Giuseppe Galasso, nella prefazione a Maree del 2001, notava che
il mondo poetico di Garzya era "semplice, ancorché pensoso;
composto, ancorché vivace". E "la spontanea levità"
con cui scorrevano "i suoi versi, pur evidentemente tanto curati
e rifiniti", non aveva alcuna tentazione, né la faceva
avere al lettore, "di fingere travagli abissali, invidiosi
veri, insospettabili e improbabili profondità"; la poesia
di Garzya era quale subito appariva: "naturale e credibile
nella sua radice umana e nelle movenze che si era data; il lettore
non doveva cercarla negli ascosi penetrali del tempio", giacché
"la incontrava, semplice e affabile, sulla soglia e non aveva
difficoltà a intrattenersi con essa in fidati, per quanto
tenui e sommessi, colloqui".
Una conferma in poesia - questa di Galasso - , di una poetica colloquiale,
che Garzya aveva affidato all'obiettivo fotografico già nella
prima mostra del '94, Forti affetti. Poetica che era già
stata segnalata da Valeria del Vasto, che quella mostra commentava
e recensiva. Il Leitmotiv del viaggio, che ne era il tema dominante,
appariva, al commento sensibile della del Vasto, certo affidato
ai luoghi visti, "ma soprattutto attraverso i propri sentimenti,
gli stati d'animo, le emozioni", eludendo "la drammaticità
immediata di certe immagini di Capa, o di Cartier Bresson",
o " la plasticità dei corpi fotografati da Mappeltorpe",
e piuttosto affidandosi all'osservazione della natura, dei luoghi,
compenetrandosi con essi, trasfondendo "in essi un sentimento,
un 'affetto', ma un affetto 'mediato, sublimato, proprio attraverso
la contemplazione", difficilmente quelle immagini raccontavano
"i particolari", drammatizzavano la singolarità
dell'immagine.
Già richiamare questa notazione segnala, a guardare le foto
scelte per questa sera, un registro diverso, e non ignoto a Garzya
in questo decennio; contemplazione c'è sempre, però
chiusa sul particolare: il focus non è il senso appagato
dell'insieme, ma il centro - inquietante - della foto. Evidentemente,
in questo decennio - visto che Garzya antologizza il suo tema in
senso diacronico - il lato che si teneva in ombra di una poetica
colloquiale; qui è la concentrazione assorta che sembra dominare,
non la fusione con il "tutto" visto, è la concentrazione
su di sé, il dettaglio che siamo che non si accomoda nel
tutto, ma si rivede nel particolare, che chiede campo all'occhio.
La poetica di Picasso che la del Vasto richiamava a commento delle
immagini di Colori di Procida, del 2002 - "Dipingere è
il mestiere di un cieco. Egli non dipinge ciò che vede, ma
ciò che pensa, cosa dice a se stesso su ciò che ha
visto" - qui vira dal colloquio sulle cose al puro e semplice
segnalare l'esserci, il proprio - dall'intimità, dalla confidenza
con le cose, all'interiorità: "il mare di dentro"
che si porta fuori, e vede "il mare che non si vede".
Una virata iconica che è già annunciata nella raccolta
ultima, appunto, Il mare di dentro, del 2005, e che Patricia Bianchi
segnalava con finezza: "Poesia essenziale, dunque, quella di
Giacomo Garzya, o meglio ricerca delle essenze prime dell'uomo attraverso
l'ascolto del proprio io, e non a caso è ritornante il tema
della poesia come ricerca attorno ai principi essenziali della vita
stessa, cioè acqua, aria, terra, fuoco".
Nei versi de Il mare di dentro, l'equilibrio del proprio essere
al mondo è un carattere raggiunto, niente di nativo, neanche
apparentemente "ingenuo" come nelle prime raccolte; il
giorno non è "bello e felice", lo diventa se l'opera,
l'opera della vita - nel medio dell'occhio - riesce.
Poetare è
Catturare il reale/ e trasfigurarlo con l'immaginazione/ questo
è bello e rende felice il giorno./ Rendere semplice ciò
che è complesso/ scoprire l'armonia delle linee/ nella luce
che cambia/ nelle nuvole che corrono/questo è bello e rende
felice il giorno.
Poetare è passare la linea d'ombra, Dall'ombra alla luce:
A volte/ la creatività artistica/ e il ripensamento/ sulle
cose della vita/ ingenerano foglie di quercia ramate/ in sarcofagi
pieni di luce/ e speranza/ in cui la morte si adagia serena/ per
vivere di nuovo.
Se raggiungi la forma, morte si adagia serena.
Dietro l'apparente colloquialità di una vita, che ancora
in un bel componimento prova a dirsi
Per un'amica:
Sottovento/ il senso/ della tua esistenza./ Sottovento/scarrocci/
frenando l'impulso/di vivere tra i marosi/…
c'è in Garzya la comunicazione di un sentimento tragico e
trattenuto della vita, che accetta di vivere sottovento, scarrocciare,
frenando l'impeto di vivere tra i marosi, affidandosi alla forma
per costruirsi un carattere.
Questo sentimento tragico e trattenuto della vita era già
tra le pieghe della luce apollinea cercata nel viaggio in Grecia
in Solaria, del 1998, nell'incontro "felice" con il "calcare",
la statuaria della natura, che gli faceva rivivere emozioni già
provate a Capri, in Costiera amalfitana e nel Salento, "terre
greche anch'esse". Come nella visione di
Màni :
Spoglio, un pozzo, una torre/lacrime fertili/ Màni vagheggi
// Lacrime rare/ profondo calcare/ nascondi// Solo così riarso/
tempri il carattere,/ quello dorico intendo.
Un segnale anticipato, di dove, quasi senza avvedercene, Garzya
ci ha portato in questa mostra: nella tensione tra apollineo e dionisiaco
la cui soluzione nella forma è il lavoro del poeta e dell'artista.
Nella caratterizzazione nietzscheana della "sua" grecità,
del suo sentire e vedere:
"Nella comprensione immediata della figura noi godiamo, tutte
le forme ci parlano, non c'è niente di indifferente e di
non necessario. Tuttavia, nonostante la vita suprema di questa realtà
sognata, traluce ancora in noi il sentimento della sua illusione"
. Così Nietzsche nella Nascita della tragedia, che corsiva
"illusione". E che soggiunge: "avrei da addurre più
di una testimonianza e le dichiarazioni dei poeti".
Una testimonianza e una dichiarazione noi la troviamo questa sera,
guardando le foto di Garzya e ripercorrendo il suo itinerario poetico.
Un' "ingenuità omerica", per dirla con Nietzsche,
quindi un'ingenuità apparente, come "perfetta vittoria
dell'illusione apollinea", che in queste foto pare incrinarsi
e pure si salva ancora con una sorta di "consolazione metafisica",
il vero genio per Nietzsche del "greco profondo, dotato in
modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra,
che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di
distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà
della natura, e corre il pericolo di anelare a una buddistica negazione
della volontà", e che l'arte salva, e mediante l'arte
lo salva a sé - la vita.
Quella "ripulsa dorica", nella volontà di forma,
del tragico della vita, nel colloquio sentimentale con la natura
e i segni dell'uomo che Garzya ha intrattenuto nel suo percorso
decennale di poeta e di fotografo, appare oggi a latere, nel controcanto
fotografico antologizzato in questa mostra, cedere alla drammaticità
metafisica del particolare, che pure la forma tiene ancora fermo.
In una qualche misura appare aver già ceduto da sempre.
Quando si vede il mare che non si vede, come in queste foto, quando
viene fuori il mare di dentro la fotografia di Garzya cambia registro,
e cambia registro anche il rapporto con la parola che ha sempre
intrattenuto. Questo rapporto si muta, da sintattico, esemplificativo,
ragionato, si fa parattico, indicativo. … Un passo in là,
un passo ragionato nel sentire, per chi comunque ha scelto di non
strambare, di andare più piano nel viaggio, accanto ai suoi
affetti. Tanto il traguardo è di tutti lo stesso, di chi
corre veloce e di chi rallenta; solo che chi corre veloce si perde
il paesaggio.
EUGENIO
MAZZARELLA