Anche
quest'ultima raccolta di Giacomo Garzya, Un anno, conferma il dettato
poetico che gli è proprio, e che già Giuseppe Galasso
individuava per tempo nella prefazione alla sua seconda raccolta
di poesie, Maree, del 2001: la semplicità pensosa del dettato
poetico, che non perde tuttavia vivacità nella compostezza
del verso di "spontanea levità". Così si
esprimeva Galasso, e i versi anche di questa raccolta ultima confermano
in pieno, credo, quel giudizio.
Una poetica colloquiale che anche in questa raccolta, lo notavo
già nella prefazione a Pensare è non pensare del 2009,
ha il suo scenario e la sua metafora nella topica del viaggio, e
in ciò che del viaggio - insieme paesaggio e scenario interiore
- resta: lacerti di memoria, visioni che dilatano un istante, fanno
spazio di un'intuizione (qui credo ci sia il fotografo, l'occhio
del fotografo di Garzya); tracce che si consegnano a ricordi, a
un 'raccoglimento nel cuore' di un vissuto, di cui quasi ci si sorprende
di essere ancora capaci di vivere: la sorpresa di "un'altra
notte/ e tu canti ancora/ la tua voce tristeā¦/ tu che hai perso
tanto,/ tua madre, tuo padre/ tua figlia" (Un'altra notte).
Queste notti che sono ancora date dopo la perdita, cartografate,
annotate, datate in Un anno ancora (e suona in questi versi una
continua meraviglia di questo "ancora") da "pellegrino
su questa terra,/ che non è più tua/ dove il pianto
scava il tuo volto"(Saudade), queste notti dove "il quarzo
dell'orologio avanza/ e allora altro non resta/ che aprire il meccanismo/
e mandarlo in frantumi" (Amici miei), dove "uscire dal
dolore / è il momento più bello del nuovo giorno"(Uscire
dal dolore), sono le notti che restano dopo Cinque anni, che Fanny,
la figlia adorata, non c'è più.
Qui è difficile distinguere l'uomo dal poeta, forse non è
neppure giusto, quando si è impegnati a "dimenticare
per sopravvivere" (Cinque anni). Quando il cuore ti porta su
un'immagine, una voce, un sorriso; e però, per non morire
seguendo la tua personale Euridice in quell'immagine, in quella
voce, in quel sorriso, su cui non riesci a mettere le mani, che
non riesci più a stringere al petto, e solo ricordi come
bambina correva a stringerti le ginocchia (Euridice, Campanule),
per non morire, devi mettere la testa da un'altra parte; non cercare
più nemmeno i gabbiani per parlare con lei, perché
"danno troppo dolore"(Cinque anni).
C'è un "cuore contratturato" (Il contratturato)
in queste poesie. Ed è quasi un miracolo che da questa contrattura
dell'anima possa sgorgare qualcosa, che "al suono arcano del
mare" possa "scorrere vino verde nelle vene", ad
un piccolo tavolo, al Santa Cruz (si segna il posto, lo si nomina
per la sorpresa) con amici (Portugal). Il vino verde, il colore
della vita. Come possa ancora scorrere nelle vene, questa è
la domanda, che lancina chi legge questi versi di "un naufrago
senza speranza", un puntino sempre più piccolo all'orizzonte;
fantasma, naviglio dell'io che va lentamente a fondo (Naufragio).
Com'è possibile?
Balugina a un certo punto la possibilità della fede, in una
fede che veda al di là della vita di qua, dove "il sole
appassisce d'inverno". Al Monte del Tempio, "solo su queste
pietre/ è resurrezione dei morti". Ma è un baluginio.
Fondamentalmente, a sostegno del lento andare a fondo della propria
nave, della propria arca di sopravvivenza di amore, di affetti e
ricordi, inesorabile a scendere in un mare di cui non si conosce
il fondo, c'è la filologia dell'al di qua, la lezione del
padre, da cui si impara a distinguere la verità che si può
distinguere, il primo alfa, dalla corruzione dei testi (Filologie).
La trama degli affetti, e i suoi ambienti (Lecce sacra e antica,
e la figura della nonna; Napoli segreta e antica, e le sue passeggiate),
di un'anima epicurea, la densità pensosa che si fa spontanea
levità di parola (penso alla biografia minima, dialogo conviviale,
di Portugal, Via Veneto, Ciro).
Insomma in Un anno, in queste poesie, Garzya è come se scattasse
fotogrammi al suo vedersi vivere, e al suo veder viver, come homo
patiens, quasi uno sdoppiamento che lo aiuta a vivere, che lo tira
fuori dall'insostenibile (Homo patiens). Una poesia che è
un cerotto sull'anima; del poeta, e di chi lo legge e misura alle
di lui perdite le sue perdite.
Ma anche un insegnamento, che vorrei esprimere con una citazione
da Oscar Wilde, che era in quarta di copertina di Solaria (1998),
il primo volumetto di versi di Giacomo Garzya: "Coloro i quali
trovano nelle cose belle significati belli, sono persone colte.
Per questi c'è speranza". E' questa capacità
per la bellezza, di farsi cogliere da essa pur nella pensosa consapevolezza
della sua fuggevolezza, prima ancora della capacità di coltivarla,
che permette di cogliere, nonostante tutto, il senso di ciò
che fugge: "l'attimo di sole "che "illumina il bello
della vita" (Momenti di luce), che dà nomi e volti a
una vita che il poeta sa di passaggio; che è un anno e che
pure c'è dato, e va patito, e vissuto; più raramente
gioito, "mentre la terra gira/ e porta con sé il pensiero
di tutti" (La sfera).
EUGENIO
MAZZARELLA