L'umanesimo artistico di Giacomo Garzya è contemporaneità
e non somiglianza di vita né con i genitori né con
altri perché la vita è una parola magica che sorprende
non solo i sapienti ma soprattutto gli esseri umani di normale valore
dovendo tutti stringersi in un parco di sentimenti e di pensieri
tradizionali e quotidiani, d'idee innovative e rare, di regole e
non di modelli stabili della società a cui si appartiene
per la volontà di conseguire una struttura umana reale e
non metafisica, universale e non fideistica: su queste basi si eleva
il principio della conciliazione umana, valida per la nascita e
la rinascita delle passioni e delle virtù, della cultura
nella varietà del presente in rapporto al passato.
La vera umanità con il suo artistico umanesimo ( che deriva
dal perenne umanesimo storico) redime se stessa e migliora operando
negli studi delle forme continue del passato e nell'ammirazione
di ciò che sorprese e continua a sorprendere l'uomo per essere
e divenire più idoneo a intendere la vita degli altri: la
patria, appunto, permette di salire e scendere la scala del futuro,
unitario nel sublime e non nella miseria spirituale di un Continente
in cui la vita di tutti merita la realtà e la verità
nelle differenze ideali. Nasce tra natura e bellezza la felicità
dell'innocenza che le leggi intendono proteggere e difendere facendo
intravedere l'unità nel sublime e non nel sonno perenne.
Il sonno perenne è stato ed è la causa di tutti i
sogni per i quali credersi inviolabili in ogni attività ideale
e pratica: il sonno è una forza della natura che l'uomo non
può volere che sia contro natura né superiore alla
natura stessa. L'uomo non può soccombere in sé da
se stesso. Tutti i caduti sono redenti come oboli di una maldestra
universalità nell'esercizio di guerre particolari: i giovani
vengono chiamati non solo a studiare ma a volere ciò che
gli altri hanno deciso di volere come dovere assoluto e indiscutibile,
coscienti o incoscienti della caduta dell'uomo nel nulla eroico,
anch'esso provocato dall'unità delle visioni e delle convinzioni,
ritenute valide come quelle di Dio, mitiche, quasi l'intimità
dei sogni potesse corrispondere alla verità del continuare
ad essere in natura per una bellezza irraggiungibile nell'Orbe più
che nel patrio Continente. La felicità non è un modello
e perciò è inutile rincorrerla nell'assurdo, che non
è il sublime. L'umanesimo artistico di Garzya non può
coincidere con la grecità o con la romanità o la germanità
o altro: esso è l'uomo apparente che vive per l'uomo immortale,
quello che vede senza nostalgia il proprio divenire tra oggetto
e soggetto in amore di convivenza perfetta: il suo divenire vivifica
le patrie e le rifonda nell'armonia che è propria dell'uomo
che fa del mondo la casa del futuro. Così ciò che
è di Garzya è di tutti come amore della storia che
gli appartiene e ne costituisce l'identità poetica oltre
che politica nella libertà. Egli da poeta dice: "Clessidre
/ giro / nella notte / fonda / interminabile". È questa
la sua prima forma umana: vivere l'interminabile in sé ma
visibile nelle varie organizzazioni storiche, le quali escludono
l'idea di potenza e di potere. Essa annullerebbe la libertà
come forza nascente della creatività. La natura in sé
è invincibile e è perciò diviene fonte di amore,
mentre le guerre corrispondono al silenzio della natura, se il silenzio
è il contrario della PAX. La guerra dissolve le gioie e i
dolori, li distribuisce ai vinti e ai vincitori, dando per certo
che la morte contro natura è il nulla eroico per gli uni
e per gli altri. Morire nel sublime vale lasciar vivere l'armonia
delle libertà che alimentano le umane radici della bellezza:
Desiderio / d'erica / le mie radici... / a ritroso / la memoria...
In Europa o nella Campine o nel Salento l'uomo non muore se non
per rinascere nell'unità del presente con il passato da cui
deriva per ordine affettivo, poi divenuto ordine di amore nella
libertà come corda profonda che tocca quella / dei padri
/ dei padri: il passato diviene il luogo e il tempo dell'assenza
del male come condizione vivificante della poesia dell'amore.
Come si può essere?
Pitagorici o socratici, platonici o cristiani, ma la grecità
per la romanità non basta più a capire ciò
che si è oggi nel sangue, nell'amore, nella cultura della
libertà in patria per le patrie e per il cosmo: ci si sente
comunque attratti nel sublime del passato. Ma se si rimane legati
alla propria individualità, la vita diviene una colpa perenne
anche per gli eredi, una hybris, si direbbe con retorica culturale,
senza storia e senza umana percezione della realtà dei sentimenti
già approfonditi nella consapevolezza dei modi di essere
nei confronti del passato sì da superare ogni sventura personificata
o personificabile contro ogni aspirazione di sublimazione continentale
delle patrie, prima di coglierne i frutti : Ora / magico nord /
a te / vorrei tornare, / dopo / quello / del Corno d'oro / che al
Bosforo / già greco / s'apre.
Eppure un po' per volta tutto ricorda il Sud come in Ascona. Alternativamente
il poeta, fatto uomo di fede antica, dopo d'aver scoperto se stesso
nelle radici, va dall'uno all'altro polo per ritrovarsi nella "solitudine"
che da poeta richiama pensando al filosofo F.Nietzsche. E perché?
Perché si rimarrebbe stretti nella morsa dei valori, ai quali
si guarda come a vette da conoscere mettendovi i piedi fino a toccare
il sublime della storia che l'uomo a valle talora oscura. A Cevedale
torna chiaro il processo umano della poesia come storia ideale:
Come Piramidi / le cime / - / bianco / - / solenne / nella tua solitudine
/ --- / indomito / resisti?
Ciascuno di noi può diventare "prometeico" anche
senza conoscere il Caucaso né l'Etna o Sils-Maria (Nietzsche):
si rimane storditi in ogni caso se non si scende nell'assenzio /
della volontà / che non muore. È qui lo Heimat o la
patria umana, senza la quale ogni Prometeo vive assurdamente in
catene; e, se non Prometeo, sarà certamente un Seneca, visto
nello sfondo della storia come lo intende Rubens nel quadro che
si può vedere e leggere a Palazzo Pitti a Firenze.
A me pare vera questa storia perché l'ho vissuta in prigionia
di guerra quando ebbi la certezza di poter perdere il senso della
mia storia umana e delle mie radici avendo smarrito non solo la
realtà ma anche il tempo della genesi ideale e pratica. Non
solo Nietzsche ( che è un moderno) ma soprattutto Seneca
è un maestro della sublime storia vissuta in solitudine venendo
meno il potere della civiltà e con essa il valore dell'uomo
civile. Il futuro resiste ai dogmi e si apre alla cultura della
Scienza come Conoscenza che è autentica forza della luce
che impera sulle cose naturali. Così come non c'è
materia, se non c'è l'uomo, il futuro rimane assente a se
stesso perché non si può vivere il passato in estasi
perenne; e non è umanesimo artistico, potrebbe essere o tutto
al più diviene forma fideistica del presente come si canta
in Lungo Senna e in Place du Tertre, come in Vetrate gotiche e in
Cote d'or, quando i vasi/ si dilatano / in pianto.
Il passato, se è vero, dà forza al linguaggio creando
nell'umano ordine né angoscia né aspettative improvvide
per un sapere che nella realtà nulla muta. E siamo a Monteriggioni
come vi fu Dante Alighieri per credere nel baluardo del nostro vivere.
E si passa oltre per vivere il desiderio di quiete come in Punta
Caruso e poi a Punta Imperatore spunta la donna che vira verso il
verde per dare gioia alla vita che incoraggia a vincere le Assenze
tra reti abbandonate sulla riva del mare.
Il linguaggio non ammette amnesie: il passato o il presente è
la riserva meccanica del domani anche quando la solitudine esplode
alla ricerca del bello che in natura feconda sempre nelle radici
umane così come nelle radici delle piante e degli alberi,
isolati fuori della foresta, prima che nelle foglie, nei fiori.
Il linguaggio delle radici estende il tempo e non lo rende definito,
anzi lo purifica con il vento delle tempeste. E siamo alla Morte
di Cristo per conoscere il pianto delle donne, chiodo dopo chiodo.
A questo punto il poeta crede di nascere e rinascere nella virtù
e si riconosce in se stesso più di quanto possa esigere la
morale della religione di Cristo, sopraggiunto a comporre e a ricomporre
il valore dell'esistenza.
Il linguaggio, quindi, non è la pensione della morte, è
la passione del vivere che assegna la ragione del diritto alla felicità
e alla bellezza della natura che vengono intese meglio dal cielo
e dalla terra di quanto possa l'impegno umano che deve al lavoro
e alla donna la sua perfetta originalità se il vento non
spazza la vita come si dice in Ortigia.
Il consenso poetico continua in Terra greca e poi in Primavera e
continua intensamente in Attimi e si trasforma in Gioia, se pure
in languido piacere, in attesa di altre Tempeste di vita, le quali
solo con il Feeling vengono contenute al pensiero di vivere con
la donna per volgersi in un Attimo all'ardore del divenire uomo
nella verità sociale dell'amore così come pulsa in
Frammenti ansie e speranze da suscitare in Passione volontà
di amoreggiare per il bene del suo futuro.
Panacea d'amore la vita non è se la donna non apre il suo
cuore all'uomo, anche se cosciente del suo umanesimo artistico:
il maschio è un essere che il tramonto avvolge di continuo
in un mistero, tanta è la pena che tormenta il sonno che
può farlo scendere nell'abisso nero del tempo che feconda
e attizza il presente in oblio: ed è Oblio. Subentra il Canto
greco ed altre melodie scivolano in amore anche sapendo che non
c'è un dopo. Ma Amalia vive davvero nel suo presente con
il canto del destino comune, pur se lui dice: Il mio fado / nella
penombra / è per te.
La donna nella poesia del Garzya è un'anima potente e gentile,
non un carattere, un volto, una maschera o una maniera femminea;
è piuttosto una miniera interiore del suo destino che riporta
alle radici l'esistenza per voler tanti luoghi conoscere per far
sentire per la prima volta l'urlo forte / tra amore e morte. Dei
due, dell'uomo e della donna, ognuno diviene un Medardo Rosso per
il quale su una appare un velo, sull'altro la tela grezza: tale
la vita rimarrebbe se non intervenisse il richiamo cosciente alla
storia degli altri esseri umani tra vita e morte che per necessità
storiche scalfiscono pietre dure come quelle che vengono dalla memoria
preistorica, pur volendo talora apprezzare le ragioni d'un crociato
vessillo per liberare il Santo Sepolcro. Ma è possibile in
Otrànto, in Otranto dare storia al mito o agli eroi del mito?
Fatto strano è che l'umanesimo artistico diviene civile nel
far vivere i suoi antidoti nelle vicende napoleoniche. Ma non è
finito! Anche la natura dà il suo segnale di vita progressiva
e indomabile in Napoli 1822, così: Spento il Somma / l'altra
bocca / spasmi eruttivi / nell'aria / esplode.
Nel passaggio fra una storia e l'altra spunta per antitesi politiche
Praga 1968 come primavera del socialismo umano, così come
prigioniero di guerra l'avevo asserito in Kangra Valley e sentito
solo come utopia. Ora non posso spargere parole per un giovane che
apporta luce ad una realtà che sulle radici produce da sé
coscientemente ciò che il tempo richiede agli onesti cittadini
d'Italia e d'Europa: dare amore alla vita e onore alla morte, se
nasce tra natura e bellezza la felicità. E mi pare questo
un riquadro dato a Napoli o da Napoli della rivoluzione napoletana
del 1799. M'impongo, appunto, di far parlare Il resto di niente
di Enzo Striano. Forse è un modo semplicistico da critico
come se non avessi tempo per esaminare i validi sensi dell'anima
altrui e del pensiero che vi circola intenso per la necessità
di andare avanti senza arrogarsi il vanto dell'eternità.
LUIGI COSTANZO
Napoli, 12 settembre 2003
Questa pagina sulla mia poesia
fu pubblicata in GIACOMO GARZYA, POESIE (1998-2010), Napoli 2011,
M.D'Auria Editore, pp.409-414.