LUIGI COSTANZO, L'UMANESIMO ARTISTICO DI GIACOMO GARZYA

 


L'umanesimo artistico di Giacomo Garzya è contemporaneità e non somiglianza di vita né con i genitori né con altri perché la vita è una parola magica che sorprende non solo i sapienti ma soprattutto gli esseri umani di normale valore dovendo tutti stringersi in un parco di sentimenti e di pensieri tradizionali e quotidiani, d'idee innovative e rare, di regole e non di modelli stabili della società a cui si appartiene per la volontà di conseguire una struttura umana reale e non metafisica, universale e non fideistica: su queste basi si eleva il principio della conciliazione umana, valida per la nascita e la rinascita delle passioni e delle virtù, della cultura nella varietà del presente in rapporto al passato.
La vera umanità con il suo artistico umanesimo ( che deriva dal perenne umanesimo storico) redime se stessa e migliora operando negli studi delle forme continue del passato e nell'ammirazione di ciò che sorprese e continua a sorprendere l'uomo per essere e divenire più idoneo a intendere la vita degli altri: la patria, appunto, permette di salire e scendere la scala del futuro, unitario nel sublime e non nella miseria spirituale di un Continente in cui la vita di tutti merita la realtà e la verità nelle differenze ideali. Nasce tra natura e bellezza la felicità dell'innocenza che le leggi intendono proteggere e difendere facendo intravedere l'unità nel sublime e non nel sonno perenne.
Il sonno perenne è stato ed è la causa di tutti i sogni per i quali credersi inviolabili in ogni attività ideale e pratica: il sonno è una forza della natura che l'uomo non può volere che sia contro natura né superiore alla natura stessa. L'uomo non può soccombere in sé da se stesso. Tutti i caduti sono redenti come oboli di una maldestra universalità nell'esercizio di guerre particolari: i giovani vengono chiamati non solo a studiare ma a volere ciò che gli altri hanno deciso di volere come dovere assoluto e indiscutibile, coscienti o incoscienti della caduta dell'uomo nel nulla eroico, anch'esso provocato dall'unità delle visioni e delle convinzioni, ritenute valide come quelle di Dio, mitiche, quasi l'intimità dei sogni potesse corrispondere alla verità del continuare ad essere in natura per una bellezza irraggiungibile nell'Orbe più che nel patrio Continente. La felicità non è un modello e perciò è inutile rincorrerla nell'assurdo, che non è il sublime. L'umanesimo artistico di Garzya non può coincidere con la grecità o con la romanità o la germanità o altro: esso è l'uomo apparente che vive per l'uomo immortale, quello che vede senza nostalgia il proprio divenire tra oggetto e soggetto in amore di convivenza perfetta: il suo divenire vivifica le patrie e le rifonda nell'armonia che è propria dell'uomo che fa del mondo la casa del futuro. Così ciò che è di Garzya è di tutti come amore della storia che gli appartiene e ne costituisce l'identità poetica oltre che politica nella libertà. Egli da poeta dice: "Clessidre / giro / nella notte / fonda / interminabile". È questa la sua prima forma umana: vivere l'interminabile in sé ma visibile nelle varie organizzazioni storiche, le quali escludono l'idea di potenza e di potere. Essa annullerebbe la libertà come forza nascente della creatività. La natura in sé è invincibile e è perciò diviene fonte di amore, mentre le guerre corrispondono al silenzio della natura, se il silenzio è il contrario della PAX. La guerra dissolve le gioie e i dolori, li distribuisce ai vinti e ai vincitori, dando per certo che la morte contro natura è il nulla eroico per gli uni e per gli altri. Morire nel sublime vale lasciar vivere l'armonia delle libertà che alimentano le umane radici della bellezza: Desiderio / d'erica / le mie radici... / a ritroso / la memoria...
In Europa o nella Campine o nel Salento l'uomo non muore se non per rinascere nell'unità del presente con il passato da cui deriva per ordine affettivo, poi divenuto ordine di amore nella libertà come corda profonda che tocca quella / dei padri / dei padri: il passato diviene il luogo e il tempo dell'assenza del male come condizione vivificante della poesia dell'amore.
Come si può essere?
Pitagorici o socratici, platonici o cristiani, ma la grecità per la romanità non basta più a capire ciò che si è oggi nel sangue, nell'amore, nella cultura della libertà in patria per le patrie e per il cosmo: ci si sente comunque attratti nel sublime del passato. Ma se si rimane legati alla propria individualità, la vita diviene una colpa perenne anche per gli eredi, una hybris, si direbbe con retorica culturale, senza storia e senza umana percezione della realtà dei sentimenti già approfonditi nella consapevolezza dei modi di essere nei confronti del passato sì da superare ogni sventura personificata o personificabile contro ogni aspirazione di sublimazione continentale delle patrie, prima di coglierne i frutti : Ora / magico nord / a te / vorrei tornare, / dopo / quello / del Corno d'oro / che al Bosforo / già greco / s'apre.
Eppure un po' per volta tutto ricorda il Sud come in Ascona. Alternativamente il poeta, fatto uomo di fede antica, dopo d'aver scoperto se stesso nelle radici, va dall'uno all'altro polo per ritrovarsi nella "solitudine" che da poeta richiama pensando al filosofo F.Nietzsche. E perché? Perché si rimarrebbe stretti nella morsa dei valori, ai quali si guarda come a vette da conoscere mettendovi i piedi fino a toccare il sublime della storia che l'uomo a valle talora oscura. A Cevedale torna chiaro il processo umano della poesia come storia ideale: Come Piramidi / le cime / - / bianco / - / solenne / nella tua solitudine / --- / indomito / resisti?
Ciascuno di noi può diventare "prometeico" anche senza conoscere il Caucaso né l'Etna o Sils-Maria (Nietzsche): si rimane storditi in ogni caso se non si scende nell'assenzio / della volontà / che non muore. È qui lo Heimat o la patria umana, senza la quale ogni Prometeo vive assurdamente in catene; e, se non Prometeo, sarà certamente un Seneca, visto nello sfondo della storia come lo intende Rubens nel quadro che si può vedere e leggere a Palazzo Pitti a Firenze.
A me pare vera questa storia perché l'ho vissuta in prigionia di guerra quando ebbi la certezza di poter perdere il senso della mia storia umana e delle mie radici avendo smarrito non solo la realtà ma anche il tempo della genesi ideale e pratica. Non solo Nietzsche ( che è un moderno) ma soprattutto Seneca è un maestro della sublime storia vissuta in solitudine venendo meno il potere della civiltà e con essa il valore dell'uomo civile. Il futuro resiste ai dogmi e si apre alla cultura della Scienza come Conoscenza che è autentica forza della luce che impera sulle cose naturali. Così come non c'è materia, se non c'è l'uomo, il futuro rimane assente a se stesso perché non si può vivere il passato in estasi perenne; e non è umanesimo artistico, potrebbe essere o tutto al più diviene forma fideistica del presente come si canta in Lungo Senna e in Place du Tertre, come in Vetrate gotiche e in Cote d'or, quando i vasi/ si dilatano / in pianto.
Il passato, se è vero, dà forza al linguaggio creando nell'umano ordine né angoscia né aspettative improvvide per un sapere che nella realtà nulla muta. E siamo a Monteriggioni come vi fu Dante Alighieri per credere nel baluardo del nostro vivere. E si passa oltre per vivere il desiderio di quiete come in Punta Caruso e poi a Punta Imperatore spunta la donna che vira verso il verde per dare gioia alla vita che incoraggia a vincere le Assenze tra reti abbandonate sulla riva del mare.
Il linguaggio non ammette amnesie: il passato o il presente è la riserva meccanica del domani anche quando la solitudine esplode alla ricerca del bello che in natura feconda sempre nelle radici umane così come nelle radici delle piante e degli alberi, isolati fuori della foresta, prima che nelle foglie, nei fiori. Il linguaggio delle radici estende il tempo e non lo rende definito, anzi lo purifica con il vento delle tempeste. E siamo alla Morte di Cristo per conoscere il pianto delle donne, chiodo dopo chiodo. A questo punto il poeta crede di nascere e rinascere nella virtù e si riconosce in se stesso più di quanto possa esigere la morale della religione di Cristo, sopraggiunto a comporre e a ricomporre il valore dell'esistenza.
Il linguaggio, quindi, non è la pensione della morte, è la passione del vivere che assegna la ragione del diritto alla felicità e alla bellezza della natura che vengono intese meglio dal cielo e dalla terra di quanto possa l'impegno umano che deve al lavoro e alla donna la sua perfetta originalità se il vento non spazza la vita come si dice in Ortigia.
Il consenso poetico continua in Terra greca e poi in Primavera e continua intensamente in Attimi e si trasforma in Gioia, se pure in languido piacere, in attesa di altre Tempeste di vita, le quali solo con il Feeling vengono contenute al pensiero di vivere con la donna per volgersi in un Attimo all'ardore del divenire uomo nella verità sociale dell'amore così come pulsa in Frammenti ansie e speranze da suscitare in Passione volontà di amoreggiare per il bene del suo futuro.
Panacea d'amore la vita non è se la donna non apre il suo cuore all'uomo, anche se cosciente del suo umanesimo artistico: il maschio è un essere che il tramonto avvolge di continuo in un mistero, tanta è la pena che tormenta il sonno che può farlo scendere nell'abisso nero del tempo che feconda e attizza il presente in oblio: ed è Oblio. Subentra il Canto greco ed altre melodie scivolano in amore anche sapendo che non c'è un dopo. Ma Amalia vive davvero nel suo presente con il canto del destino comune, pur se lui dice: Il mio fado / nella penombra / è per te.
La donna nella poesia del Garzya è un'anima potente e gentile, non un carattere, un volto, una maschera o una maniera femminea; è piuttosto una miniera interiore del suo destino che riporta alle radici l'esistenza per voler tanti luoghi conoscere per far sentire per la prima volta l'urlo forte / tra amore e morte. Dei due, dell'uomo e della donna, ognuno diviene un Medardo Rosso per il quale su una appare un velo, sull'altro la tela grezza: tale la vita rimarrebbe se non intervenisse il richiamo cosciente alla storia degli altri esseri umani tra vita e morte che per necessità storiche scalfiscono pietre dure come quelle che vengono dalla memoria preistorica, pur volendo talora apprezzare le ragioni d'un crociato vessillo per liberare il Santo Sepolcro. Ma è possibile in Otrànto, in Otranto dare storia al mito o agli eroi del mito? Fatto strano è che l'umanesimo artistico diviene civile nel far vivere i suoi antidoti nelle vicende napoleoniche. Ma non è finito! Anche la natura dà il suo segnale di vita progressiva e indomabile in Napoli 1822, così: Spento il Somma / l'altra bocca / spasmi eruttivi / nell'aria / esplode.
Nel passaggio fra una storia e l'altra spunta per antitesi politiche Praga 1968 come primavera del socialismo umano, così come prigioniero di guerra l'avevo asserito in Kangra Valley e sentito solo come utopia. Ora non posso spargere parole per un giovane che apporta luce ad una realtà che sulle radici produce da sé coscientemente ciò che il tempo richiede agli onesti cittadini d'Italia e d'Europa: dare amore alla vita e onore alla morte, se nasce tra natura e bellezza la felicità. E mi pare questo un riquadro dato a Napoli o da Napoli della rivoluzione napoletana del 1799. M'impongo, appunto, di far parlare Il resto di niente di Enzo Striano. Forse è un modo semplicistico da critico come se non avessi tempo per esaminare i validi sensi dell'anima altrui e del pensiero che vi circola intenso per la necessità di andare avanti senza arrogarsi il vanto dell'eternità.

 

LUIGI COSTANZO

Napoli, 12 settembre 2003

Questa pagina sulla mia poesia fu pubblicata in GIACOMO GARZYA, POESIE (1998-2010), Napoli 2011, M.D'Auria Editore, pp.409-414.



 

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