MELIORA SILENTIO
Geografie dell'anima, si direbbe
con espressione forse abusata di poesie come quelle di Giacomo Garzya
che ora possiamo leggere tutte insieme, quasi come se un gigantesco
atlante dei sentimenti si distendesse per intero davanti ai nostri
occhi e noi fossimo chiamati a fissare su di esso le nostre personalissime
bandierine, dopo aver dato -come è doveroso- attenzione alle
bandierine già fissate dall'autore della mappa, cogliendo
punti comuni di navigazione e di sosta, ma anche dissonanze inattese
di orientamento e di approdi.
I luoghi -lo ha osservato già gran parte della critica- giocano,
infatti, un ruolo fondamentale nella poesia di Giacomo Garzya. A
cominciare dalla ripetuta e mutevole Grecia che viene incontro al
lettore nelle prime pagine di questo libro dove -per ragione non
intenzionale di cose- la geografia si fa storia e i luoghi diventano
memoria. Come accade in Methoni, poesia dell'inizio, nella quale
è chiamata a dar conto di sé non solo la Grecia dei
miti, ma anche quella delle cronologie più vicine, che allo
scontro tra Venezia e il Turco ("Methòni superba/di
San Marco/la guardia/a bada tenesti l'offesa/del turco spavaldo").
E non potrebbe essere diversamente se per un attimo il nostro sguardo
si insinua a cogliere, dietro le parole di poesia, le parole in
prosa, la ricerca e la riflessione critica che in questi stessi
hanno occupato Giacomo Garzya, storico della religiosità
nel Mezzogiorno moderno. E da storico il Tempo, e il congedo da
esso -"E tu/Spyridion/avanti l'antica gola -recitano i versi
di Kardamyli- un mondo/che non è/più dispensi/Alito,
assenza, brezza/il tamburo del tempo/batte/quello che va"-
si piegano insieme al mutamento, giacché illusoria è
-mi sembra di poter osservare- anche per il poeta la speranza -
quella di Diafani e del suo Kafenenion- che il Tempo possa davvero
arrestarsi.
Tempo, dunque, non immobile ma storico. Tempo che scorre, anche
se l'Egeo carico di ritorni (ma così dovrebbe pure dirsi
del nostro più vicino Mediterraneo, tra le Sirene sorrentine
e il Salento, vagando tra le isole che portano il nome fascinoso
di Capri, di Ischia, di Procida) sembra, talvolta, capace di negarlo.
Così gli uomini stanno -nei versi di Giacomo Garzya- "ciclicamente/offesi
a morte/a strappi si cresce". "Cinicamente -prosegue Uomini-
offesi a morte/e/temprati/dalle umane miserie/si aspetta/ il verdetto/
del tempo". Convinzione che si ripete nella poesia Autunno
dove, a ricalco di versi illustri, torna l'immagine della precaria
condizione umana esposta, come tutti sappiamo, al mutare inesorabile
delle stagioni e, dunque, "al primo soffio cade".
Il vocabolario di questo Tempo non è fatto di parole dettate
da saggezza moderna, ma da una saggezza (si direbbe meglio una sapienza)
assai più anonima e antica: "Non sono/i de La Bruyère/
-leggiamo- a sistemare/i precetti/del buon vivere/bensì pelle
rugosa/di vecchia devota". Asperità, che è -lo
confesso- tra le poesie che ho più amato, riprendendo, quasi,
le cadenze della grande tradizione moralistica, epigrammatica, inverte
intenzionalmente rapporti e gerarchie, lasciandoci intravedere dietro
confortevoli accoglienze, l'autentica durezza delle relazioni in
gioco: "Lo spigolo/nel quale spesso/m'imbatto/lo preferirei/di
piperno/non di torba/grassa e corrotta".
Se si parte da questo punto; se si assume l'ingannevole verità
della dolcezza, allora si spalanca la tragedia muta dove il dolore
privato e quello collettivo, toccandosi, non possono che dar ragione
al grido che è nei versi di Il ghiaccio e il fuoco: "Il
massacro nei Campi fatti di forni/invece, inermi e ignare masse
ha colpito/E' stato del tutto insensato/e nessuna giustificazione
a ciò/l'uomo,la storia, possono dare".
Sembra quasi che, ad un certo punto, il Nord, "il magico Nord",
si rovesci negli orizzonti azzurri del sentimento mediterraneo,
li sconvolga e li riveli. Altre geografie dell'anima cui è
destinato il compito di fare da contro canto alle immagini troppo
rassicuranti, troppo pigre e felici, dell'esordio mediterraneo.
La "ricerca del molteplice" (così nella bella A
Fanny per i suoi vent'anni) conduce, così, a peripli che
sono ritorni in luoghi (Alimuri, la Grecia, ancora le isole del
nostro Golfo) di cui sarebbe difficile dire se sono immutati o stravolti,
come sarebbe ugualmente difficile dire se i sentimenti che vi presero
forma un tempo siano ora, ritornando, gli stessi o ci siano, in
qualche modo, inattesi ed estranei. Il divenire è: torna
proprio dalla Grecia (Diakofti) una lezione che in queste ripetute
navigazioni è talvolta duro, ma sempre necessario apprendere.
E quanto duro sia stato per Giacomo è pudico tacere. Il tempo
scorre, sconvolge gli spazi, il dolore disordina gli alfabeti. La
parola si fa meno sicura del proprio valore, della sua capacità
di suturare ciò che gli anni implacabilmente squarciano.
Rimarranno le tue parole?: l'interrogazione si fa vertiginosa quando
lambisce il Verbo, così rispondendo "E' fatale che tutto
finisca/tu dici, Agnello, della mia anima/anche il sole e gli astri
tutti/Nel vortice abissale tutti/nell'elicoide del Palazzo d'Urbino
tutti/come in Matteo/con "il cielo e la terra passeranno"/Ma
nel dopo rimarranno le Tue parole?/A volte se penso alla storia
degli uomini/credo che Tu sia morto invano".
Ma la risposta vera è quella che Giacomo Garzya ritrova sul
passo dell'Autoritratto di Salvator Rosa: Aut tace/aut loquere/meliora
silentio. "O taci, o dici cose migliori del silenzio":
cifra estrema e ragionevole della poetica colta di queste pagine,
quasi di un Wittgenstein reso, e arreso poeta.
LUIGI MASCILLI MIGLIORINI