L'eco
del viaggio, lungo ormai e ininterrotto, che Giacomo Garzya compie
da molti anni e che risuona inesorabile ancora in questi versi, è
un'eco di passi umani. Non solo di reattori, motori a scoppio o ruote
di treno, ma eco di passi lenti e cadenzati di un uomo che a piedi
percorre la sua strada, e poiché cammina a piedi ha modo e tempo per
fermarsi a guardare, a sentire e a ricordare.
La parola del viandante che discorre con se stesso, e ci rende a tratti
partecipe dei suoi pensieri, dà voce ai colori dei paesaggi rivisitati,
all'evocazione di persone e cose antiche e recenti, al silenzio di
un vuoto irrimediabile. Il diario, scandito dalle date e dai nomi
di luogo che suggellano i componimenti, disegna un itinerario che
tocca località vicine e lontane, scenari diversi e contrastanti come
gli stati d'animo del pellegrino che si racconta.
Col suo patrimonio ricco di umanità e di cultura Giacomo percorre
il suo cammino, sempre più erto e accidentato, senza rinunciare a
porsi con sommessa e pudica ostinazione le domande che nessuno dotato
di senno e sensibilità può sperare di eludere, e che si trovano anche
qui ad ogni pagina, esplicite o sottintese, e specialmente, in modo
esemplare, nelle poesie "Le nostre vecchie chiese" e in
"Dio è la natura". Gli interrogativi dell'uomo che cammina
e che pensa rimangono aperti: sono consegnati al lettore perché continui
- o incominci - lui stesso a viaggiare guardandosi attorno, e a riflettere
guardandosi dentro.
Un giorno, molti anni fa, io mi trovavo alle pendici della collina
napoletana su cui la mia famiglia vive da quattro generazioni. Una
interruzione improvvisa nel servizio della funicolare mi induceva
ad affrontare a piedi la salita, dal momento che la mia congenita
impazienza insofferente mi precludeva la possibilità di speranzose
attese di un sollecito ripristino o di lunghi giri contando su inaffidabili
mezzi alternativi. Ad un crocicchio tra i vicoli dei quartieri spagnoli
incontrai Giacomo che scendeva, a piedi anche lui per tradizionale
e antica educazione familiare. Sostammo a parlare per un poco. Quando
gli dissi del mio proposito e gli mostrai la strada che mi accingevo
ad imboccare, lui fece quietamente un mezzo giro su se stesso e con
un ampio e lento gesto del braccio indicò una via a me ignota che
si apriva dietro di lui, e mormorò: " Di là si arriva anche prima
".
Nei versi pregnanti e pieni di risonanze di questa silloge io vedo
per me un'altra volta l'indicazione - preziosa, forse perché inconsapevole
- di una strada. Questa volta però non mostrano una strada lineare.
Quella che, dall'incerta fede di varie poesie conduce alle domande
senza risposta dell'ultima, è una via che si muove attraverso il tempo
e lo spazio disegnando non più la tradizionale linea retta tracciata
dalla collaudata visione cristiana dell'esistenza, ma i cerchi concentrici
che, con la pioggia di sassate che si abbatte sulla superficie in
apparenza stagnante della vita, intersecano passato e presente, storia
e immaginazione, speranze e rimpianto.
Le parole, che Giacomo ha intrecciato nella corona di passioni, reminiscenze
e smarrimenti formata dalle sue poesie, chiedono al lettore di essere
comprese nel senso pieno e vero. Cercano una sponda. Ognuno di noi
è perentoriamente chiamato a rispondere come sa e come può. La risposta
mia alla voce colta e gentile, ma anche severa e implacabile di Giacomo,
mi sembra di averla trovata in una pagina di quello sconfinato libro
di Dolores Prato che è Giù la piazza non c'è nessuno: " Sballottamento
di passato, presente e futuro è la vita dell'individuo; sballottamento
di terremoti, valanghe e guerre la vita della terra, che insieme butta
all'aria case, animali, alberi e uomini. Gli sballottamenti coprono
e scoprono, seppelliscono e disseppelliscono ".
RICCARDO
MAISANO