MIO PADRE: ANTONIO GARZYA

COMMEMORAZIONE DI MIO PADRE ANTONIO, SOCIO CORRISPONDENTE DAL 1989, ORDINARIO NON RESIDENTE DAL 2001 DELL'ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO, TENUTASI IL 9 APRILE 2013

(in “Atti dell’Acc. delle Sc. di Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche”, vol. 147, 2013, pp. 27-40)

Nato a Brindisi il 22 gennaio 1927 [e scomparso a Telese Terme il 6 marzo 2012], Garzya compì gli studi liceali a Lecce presso il Liceo Palmieri. Il capoluogo salentino restò per tutta la sua vita il luogo della memoria, reso ancor piú caro dalla sopravvivenza del ‘griko’ nel suo dialetto, quel ‘griko’ al quale ha dato non pochi contributi [cfr., fra i titoli piú recenti in argomento, «Domenico Comparetti e il griko», ora in A. Garzya, “Per un’idea della Grecia. Scritti dal 1995 al 2011”, a cura di Anna Caramico, Napoli, Bibliopolis 2012, pp. 192-210. Questo interesse va inquadrato peraltro nel campo piú vasto della grecità italo bizantina e, in linea piú larga, alla sue radici nell’antica Magna Graecia: cfr. La poesia lirica della Magna Grecia («Quaderni di Le Parole e le Idee» XIII), Napoli 1970; «Echi di cultura antica nell’Italia bizantina», in Vichiana 12, 1982 (Miscellanea …Arnaldi), pp. 143-149; «Note di storia letteraria e linguistica dell’Italia meridionale dalle origini al VI sec. d.C.», in A. Garzya (ed.), “Contributi alla cultura greca dell’Italia meridionale”, Napoli 1989, pp. 1-132; i contributi alla editio princeps del lessico greco-latino del Collegio di Arms (purtroppo lasciata in progress), apparsi in varie sedi a partire dagli anni 90. Cfr. anche “Tradizioni scrittorie e storico-culturali nell’Italia meridionale tardoantica e medievale”, ora in “Percorsi e tramiti di cultura. Saggi sulla civiltà letteraria tardoantica e bizantina con una giunta sulla tradizione degli studî classici”, Napoli 1997, pp. 83-96; «L’apporto della Magna Graecia alla cultura europea», ora in “Per un’idea della Grecia”, cit., pp. 41-53]. Conseguita la maturità classica, s’iscrisse (1945) alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Federiciana, affrontando il percorso delle lettere classiche. L’antica capitale del Regno meridionale viveva nell’immediato dopoguerra, fra i giovani e nei suoi ambienti migliori, una tensione culturale e morale, ispirata dall’esigenza del recupero delle memorie dopo la lunga dittatura e gli orrori della guerra. Questo risveglio aveva a riferimento Benedetto Croce, allora al fecondo tramonto della sua vita. Garzya nutrì per il Croce grande rispetto e venerazione: da lui derivò quell’acuto senso storico che ne ha animato la ricerca e l’interesse attivamente manifestato per l’opera di Giambattista Vico. Conseguita la laurea in Lettere (1949), con una tesi sull’Andromaca di Euripide, che ebbe a relatore il suo maestro Vittorio De Falco, fu da questo avviato alla ricerca: assistente incaricato alla cattedra di Letteratura Greca, usufruì nei primi anni Cinquanta di una borsa di studio in Belgio, soggiorno che segnò anche per altro e più importante aspetto un momento fondamentale e duraturo della sua vita: dal Belgio portava in Italia come sposa l’adorata Jacqueline, che non gli ha voluto di molto sopravvivere. Nel 1953, a soli quattro anni dalla laurea e già con un robusto supporto di pubblicazioni, conseguiva la libera docenza in Filologia Greca e Latina. Vincitore nel concorso per l’insegnamento delle lettere classiche nei Licei, fu docente di Lettere Greche e Latine dal 1954 al 1965, al Liceo Plinio Seniore di Castellammare di Stabia e indi al Liceo Garibaldi di Napoli, che ha voluto ora dedicargli la ricca biblioteca. Nell’anno scolastico 1965-1966 fu preside del Liceo Classico Statale di Venafro. Dell’insegnamento nei gloriosi Licei classici di quel tempo, non ancora toccati dalle moderne improvvisate riforme, il Nostro conservò sempre un orgoglioso ricordo. Negli stessi anni dell’insegnamento liceale, ricoprí incarichi d’insegnamento nella Facoltà di Lettere napoletana: di Filologia Bizantina (1960-1961) e poi, per un quinquennio (1961-1966), di Papirologia. E come professore di Papirologia ebbi a conoscerlo e a frequentarne, nei lontani anni 1964-1965 e 1965-1966, le puntuali e ‘seminariali’ lezioni, nelle quali l’ancor giovane docente dava manifestazione di vasta cultura, di vigorosa metodologia e di acuta conoscenza dei testi. Già compreso nella terna dei vincitori del concorso di Letteratura Greca bandito dalla Università degli Studi di Cagliari (1958), risultato poi senza esito per motivi sui quali egli mai volle esprimersi chiaramente, solo nel 1966-1967, a sèguito di altro concorso, fu chiamato quale professore straordinario di Filologia e Storia Bizantina nella rinata (1964) Facoltà di Lettere e Filosofia della Università di Macerata. In quella Università, qualche anno dopo la laurea, che conseguii a Napoli sotto la sua guida (1966), ebbi l’opportunità di raggiungerlo e collaborare con lui prima come borsista ministeriale e poi come assistente ordinario. Nel triennio maceratese (1966-1969) Garzya affiancò l’insegnamento di titolarità con quello della Letteratura Latina: i suoi corsi su Sinesio e su Ammiano Marcellino nel 1968-1969, i seminari sulla retorica bizantina del XII secolo vertenti su testi inediti di Michele Italico e di Niceforo Basilace, esponenti di spicco della letteratura dell’età dei Comneni, restano tuttora bene impressi nella mia memoria e costituirono per me, ‘classicista’ di formazione e con interessi solo ‘marginali’ oltre il classico, l’avvio all’esplorazione di un mondo fino ad allora ingiustamente trascurato. Doctor honoris causa (1967) dell’Università di Tolosa, rientrò a Napoli nel 1969 quale professore ordinario di Filologia Bizantina (la ‘chiamata’, a che io so, fu fortemente voluta da Vittorio De Falco – Garzya aveva altre aspirazioni: la sede maceratese non gli dispiaceva e si parlava allora di una sua futura ‘chiamata’ a Bologna quale successore di Carlo Del Grande, ma non poté sottrarsi al desiderio del suo maestro). Insegnò Filologia Bizantina dal 1969 al 1981 (dal 1973 esercitò per incarico anche l’insegnamento di Filologia Greca Medioevale e Neoellenica, disciplina da lui introdotta nel percorso istituzionale delle lettere classiche); dal 1° novembre 1981 e fino alla messa fuori ruolo (1998-1999) ricoprí la prima cattedra di Letteratura Greca, già di Vittorio De Falco. Nel 1975-1976 fu Gastprofessor di Bizantinistica alla Wiener Universität; nel triennio 1985-1988, a sèguito della scomparsa di J. Grosdidier de Matons, fu chiamato quale Professeur associé di greco medioevale a la Sorbonne, Ateneo con il quale ha mantenuto fino alla fine rapporti sempre piú cordiali e fecondi. In quiescenza dal 1° novembre 2002, dopo il triennio di ‘fuori ruolo’, ebbi l’occasione e l’onore, quale direttore dell’allora Dipartimento di Filologia Classica “Francesco Arnaldi” dell’Università federiciana, di avviare la procedura per la sua proclamazione a professore emerito. A Napoli l’avevo raggiunto, dopo alcune esperienze in vari Atenei, nel 1982, suo successore nell’insegnamento di Filologia Bizantina, indi, dal 1995, collega, per successione a Marcello Gigante, sulla seconda cattedra di Letteratura Greca, per poi trasferirmi, per successione, sulla prima cattedra già sua. Socio ordinario residente della Accademia Pontaniana dal 1970, ne è stato Vice Presidente (1996-2002) e Presidente (2002-2008) e poi Presidente onorario; Socio ordinario residente della Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti della Società Nazionale di Scienze Lettere e Arti in Napoli dal 1988 (Presidente negli anni 1997-1999, 2001-2005 e 2009-2011); Socio onorario della Accademia dei Catenati di Macerata (dal 1967); Socio corrispondente della Accademia Peloritana dei Pericolanti (dal 1972); Socio corrispondente (dal 1974) della Österreichische Akademie der Wissenschaften; Socio corrispondente (1989) e ordinario (2001) di questa gloriosa Accademia delle Scienze; Socio corrispondente della Accademia di Atene (dal 2001) e (dal 1998) Socio corrispondente straniero de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres (Paris). E ancora: Membro onorario dal 1980 della Ἑταιρεία Βυζαντινῶν Σπουδῶν e dal 1989 anche della Ἑταιρεία Ῥωμαικῶν Σπουδῶν; Vice Presidente del Centro Internacional da Latinidade “Léopold Senghor” (Coimbra); responsabile per l’Università Federico II per la convenzione con Paris-Sorbonne (Paris IV) per gli studi sulla medicina greca; a lungo coordinatore del dottorato di ricerca in Filologia Greca e Latina nell’Ateneo napoletano.

Individuare nella vastissima produzione scientifica di Antonio Garzya un percorso caratterizzante è impresa ardua, poiché egli conobbe e batté da maestro molte strade. Mi limiterò ai soli dati essenziali. Grecista e filologo classico, greco e latino (si veda, fra gli altri, un suo pregevole studio sul Rudens plautino) [“Note al Rudens di Plauto” («Quaderni di Le Parole e le Idee» VII), Napoli 1967; «À propos de l’interprétation du Rudens de Plaute», in Hommages à Marcel Renard, I, Bruxelles 1968, pp. 365-373, ristampato in “La Parola e la scena. Studi sul teatro antico da Eschilo a Plauto”, Napoli, Bibliopolis, 1997, pp. 397-407] , bizantinista e neoellenista, fu un ‘umanista’ nel significato piú pieno del termine: i lunghi anni di studio e la mai interrotta frequenza dei maggiori centri culturali del continente europeo, agevolata anche dalla perfetta conoscenza, orale e scritta, delle principali lingue della scienza, gli consentirono una singolare παιδεία: con lui riusciva possibile discutere non solo di antico, ma anche di qualsiasi argomento di letteratura, di cultura e di pensiero. Come grecista, i suoi interessi coprivano tutto l’arco storico della Grecità, da Omero all’età moderna, con conoscenza minuta dei testi e profondità di riflessione. Tendenzialmente storicista, ma non condizionato da ideologie, era solito rifiutare concetti ‘classicistici’ molto abusati, quali quelli dell’attualità o dell’uniforme continuità dell’Antico, e del greco in particolare: era solito rifiutare concetti ‘classicistici’ molto abusati, quali quelli dell’attualità o dell’uniforme continuità dell’Antico, e del greco in particolare: se nel greco la continuità si pone soprattutto in riguardo all’aspetto linguistico, avendo quella lingua mantenuto sostanzialmente la sua struttura grazie anche alla mediazione bizantina e all’assenza di un vero e proprio medioevo greco, inteso almeno nel senso occidentale, questa continuità andava coniugata con la diversità delle varie epoche e con la diversità all’interno delle varie epoche, con la condizione geopolitica dell’ambiente grecofono, con il dibattito delle idee, sempre rinnovato, quand’anche latente in forme letterarie in apparenza atrofizzate. Come antichista, Garzya avviò la sua produzione scientifica col teatro e con la lirica arcaica, e non poteva darsi altrimenti per un allievo di Vittorio De Falco. Riguardo al teatro, maturò ben presto l’esperienza acquisita nell’elaborazione della tesi di laurea e diede alle stampe una serie di contributi euripidei, alcuni poi raccolti nel volume “Studi su Euripide e Menandro” (1961); nel 1962 vide la luce la monografia “Pensiero e tecnica drammatica in Euripide” (rist. 1987); intanto aveva allestito edizioni scolastiche, ma ricche di dottrina, dell’Ecuba (1955, 1984), dell’Andromaca (1963), degli Eraclidi (1958, 1995), preludio alle edizioni teubneriane dell’”Andromaca” e degli “Eraclidi” e dell’”Alcesti” [Euripides, Heraclidae, Lipsiae 1972; Euripides, Andromacha, Lipsiae 1978; Euripides, Alcesti, Lipsiae 1980 (1983). La sua edizione dell’Alcesti ebbe versione neogreca ad Atene nel 1985; di questa tragedia curò anche (1992) uno splendido adattamento teatrale per le rappresentazioni siracusane]. Nella prestigiosa collana lipsiense aveva già edito (1963) l’”Ixeuticon” di Dionigi, prima testimonianza di altro interesse, anch’esso di tradizione nella filologia classica napoletana, per i testi scientifici e tecnici. Nel campo della lirica, ricordiamo il saggio su Mimnermo [cfr. «Ricerche intorno a Mimnermo e alla sua opera», in Ann. della Facoltà di Lettere e Filosofia della Università degli Studi di Napoli, I, 1951, pp. 8-28; cfr. anche il suo intervento al dibattito su Mimnermo in Maia 17, 1965, pp. 370-373 e 385] e poi le edizioni di Alcmane (Napoli 1954) e di Teognide (Firenze 1958), l’antologia tuttora preziosa dei “Lirici Greci” (Roma 1959, più volte ristampata), condotta in collaborazione con Raffaele Cantarella, e vari saggi e note filologiche, in parte poi raccolti nel volume (Napoli 1963) “Studi sulla lirica greca da Alcmane al primo Impero”. Nel 1972 Garzya pubblicava, per i tipi di Paravia, una “Storia della letteratura greca”, anch’essa oggetto di successive ristampe, che ottenne un vasto successo di consensi. Questa “Storia della letteratura greca”, dalla scrittura accattivante e dalla struttura snella, ebbe peculiarità non da un accumulo meccanico di nozioni talora disorganiche e prolisse (si pensi, ad esempio, alle interminabili pagine che tradizionalmente occupano in testi consimili la cosiddetta questione omerica o quella sull’origine della tragedia, o anche a deviazioni estetizzanti), ma dalla individuazione e dalla proposizione di problemi, dalla robusta visione, d’insieme e al contempo particolareggiata, del fenomeno letterario come sviluppo sostanzialmente coerente di una civiltà di pensiero e di forme. In piú, la sua Storia della letteratura greca fu all’epoca fra le poche a rompere con gli schemi del classicismo e a dare rilievo e interpretazione, in agili e accattivanti capitoli animati, per cosí dire, da spirito mazzariniano, alla letteratura del dopo Costantino, alla produzione tardoantica, pagana e cristiana, che veniva usualmente sbrigata da altri in poche pagine spesso animate da un atteggiamento di sprezzante sussiego per un’epoca giudicata di decadenza.

L’interesse per il teatro tragico, di cui si è detto già sopra, lo accompagnò nel suo cammino piú maturo. Nel 1965, nel saggio “Le tragique du Prométhée enchaîné d’Éschyle” [Mnemosyne s. IV, 18, 1965, pp. 113-125 (ristampato in “La parola e la scena”, cit., pp. 223-236)] egli s’interrogava sul problema del ‘tragico’ e della ‘colpa tragica’, che diverrà fra i motivi piú fecondi della sua riflessione, sorretta dalla conoscenza di prima mano delle interpretazioni del ‘tragico’ nella Grecia del V a. C. sviluppate nella tradizione del pensiero idealistico fra tardo Settecento e prima metà del Novecento. Lo studioso era tuttavia consapevole che si trattava solo di interpretazioni moderne del ‘tragico’, restando aperto il problema di accertare no a che punto Eschilo e i tragici ne avessero avuto coscienza. «I Greci – scriveva in una conferenza accademica – non ebbero una qualche preoccupazione teoretica per tale categoria (del ‘tragico’) – quale ha avuta il pensiero moderno, da Hegel a Jaspers, da Hölderlin a Scheler. I loro poeti tragici ne ebbero però l’intuizione profonda e la trasmisero, seppur per rari sprazzi, ai loro successori sulla scena europea. Contrariamente alla credenza che l’eroe della tragedia greca sia una sorta di automa dominato dal fato, i personaggi presentati sulla scena dai poeti hanno, sí, qualcosa d’ineluttabile con cui confrontarsi, ma questo qualcosa è la libera scelta fra due vie, non un evento a senso unico. La tragicità di tale scelta è data dal fatto che essa sfocia nell’annientamento dell’eroe consapevole dell’irrimediabilità della sua rovina. Lo sviluppo successivo della vicenda mostra poi che l’exitus tragicamente ricercato si rivela portatore d’un ordine nuovo e piú giusto, ma questo rimane extra tragoediam» [cfr. “Per un’idea della Grecia, Seduta inaugurale dell’anno accademico 2000”, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, Napoli 2000, pp. 25-32, ora in “Per un’idea della Grecia”, cit. (rif. a pp. 124 s.)] È evidente che Euripide, molto piú che Sofocle, ebbe a rappresentare sotto questo aspetto un momento di rottura rispetto a Eschilo: in effetti egli, già nei primi drammi a noi pervenuti, risulta piuttosto estraneo alle teorie del ‘tragico’ di stampo idealistico. Euripide aveva segnato l’esordio scientifico di Garzya: è opportuno ritornare brevemente alla sua monografia del 1962 dal significativo sottotitolo “Saggio sul motivo della salvazione nei suoi drammi”. “Chi legge il teatro euripideo – leggiamo nella Premessa al volume – s’imbatte in un gran numero di drammi nei quali la situazione s’impernia sulla salvazione di un personaggio, o di un gruppo di personaggi. L’attesa della salvazione costituisce una nota essenziale della Stimmung d’insieme, la sua realizzazione il centro maggiore d’interesse e la forza motrice dell’azione. Tutto ciò non può essere casuale e impone l’obbligo di una compiuta indagine;” e poi: “Già la prima riflessione mostra che il ‘motivo’ è una delle risorse chiave della drammaturgia. Ma sarebbe stolto considerare un poeta come Euripide un puro tecnico della scena, un ricercatore di ‘effetti’, sia pure abilissimo. In lui la tecnica drammatica è un momento importante del processo creativo, ma non la si può concepire avulsa da un contesto ideale e da una istanza morale […] Toccando di un motivo come questo della salvazione si attinge al fondo stesso della personalità euripidea”. Ma di che salvazione può parlarsi in un contesto precristiano?: “La parola salvazione suscita istintivamente […] il richiamo all’escatologia cristiana. Ma nessuno oserà tradurre il socratico σῴζειν τὴν ψυχήν con ‘salvarsi l’anima’. La salvazione della quale si parla […] è dunque qualcosa di diverso e non avrà difficoltà a coglierne il significato il lettore che abbia qualche familiarità col mondo antico” [cfr. “Pensiero e tecnica drammatica”, cit., pp. 15 s.]. Detto altrimenti, la salvazione dei personaggi euripidei non comportava, o non sempre comportava, un riscatto sul piano morale. Questa chiave di lettura di Euripide non era del tutto nuova e Garzya ne rendeva conto nella discussione e nelle note; altri avevano toccato il motivo, ma solo occasionalmente; nuovo era ora il tentativo di comprendere sotto di esso la produzione tragica di Euripide pressoché per intera. Lo studioso si poneva cosí su di un sentiero non convenzionale, superando schemi interpretativi allora di moda (si pensi agli studi di un Gennaro Perrotta o di un André Rivier). Adottata questa linea interpretativa, veniva a cadere in secondo piano la ricerca di quegli elementi per cosí dire evenemenziali, tesi all’individuazione di situazioni storico-politiche che avessero potuto influenzare la produzione drammatica, sulla base di allusioni non sempre perspicue e talora soggettive. Col mettere in atto il procedimento della salvazione – proseguiva Garzya nel suo discorso – Euripide si poneva sulla linea dell’ideale soterico presente già nell’epica. In questa, il còmpito della salvazione era messo in atto dal dio e l’uomo finiva per essere «un segno esterno, o un’ipostasi tangibile, del gioco di azioni e reazioni che si svolge al di fuori di lui ad opera di potenze al di sopra di lui». E cosí anche nella lirica arcaica (esempi da Saffo, Alceo, Archiloco) e corale (Pindaro, Bacchilide), dove «alcuni squarci narrativi ripropongono, in prospettiva di attualità descrittiva, il motivo dell’uomo in pericolo e della sua salvezza, ma caratteristica comune è sempre il sentimento che questa sia sostanzialmente indipendente dalla volontà e dalla cooperazione dell’interessato». La svolta si ha con la tragedia: «in essa l’uomo sofferente non si limita, come nella lirica arcaica, ad apostrofare il suo cuore […] ma cerca uno sbocco pratico al suo tormento, ne fa un problema da risolvere». Con Eschilo «si giunge alla concezione di un’azione salvatrice di fronte al prepotere della violenza ingiusta»; «Non piú, come nella lirica, l’uomo assiste da spettatore al farsi della vita ma vi è coinvolto con tutto sé stesso. Non si tratta piú di due piani distinti e paralleli di azione, quello divino e quello umano, ma di un piano unico con due facce. Solo che la mossa iniziale è data ancora sempre al divino». Euripide, legato a Eschilo piú di quanto non lo sia stato Sofocle, e non piú vincolato alla trilogia, riprende lo schema dal poeta tragico piú antico, ma capovolge il rapporto dio-uomo, poiché se il divino non è da lui negato, appare piuttosto soltanto come proiezione della coscienza morale. Garzya procedeva poi per accorpamenti fra drammi (Alcesti ed Eracle; Medea, Eraclidi, Supplici, Andromaca; Ifigenia in Tauride, Elettra, Elena, Fenicie, Oreste, Ifigenia in Aulide), intrattenendosi poi in appendice sui drammi frammentari. Si può discutere sulle ragioni e sulla bontà di questi accorpamenti, prospettando ciascuno di questi drammi tipi diversi di salvazione (in alcuni casi, come in Medea, Ecuba, Troiane e Fenicie il motivo appare quasi del tutto assente), ma sta di fatto che in ciascuno di essi agisce un σωτήρ (cosí Égeo in Medea, Menèceo nelle Fenicie), talora apparso in scena contro ogni attesa e ogni speranza (si pensi al Tèseo dell’Eracle). I personaggi di Euripide, al di là dei casi particolari, appaiono tutti bisognosi di salvezza. Si può aggiungere che la presenza di salvatori e salvati in Euripide s’accentua sempre piú a mano a mano che il poeta avanzava negli anni, e questo non può essere stato soltanto un espediente tecnico. In effetti, lo sfocio di questa tendenza va visto nei cosiddetti drammi a lieto fine (pensiamo allo Ione [tragedia per la quale forse Garzya non doveva avere allora molta simpatia; vi dedicava solo una nota a pié di pagina. Invero, come nell’Alcesti, già nel prologo Hermes dà conto minuziosamente del piano salvifico di Febo], all’Elena, all’Ifigenia in Tauride) con i quali il poeta rinnovò – anche per influsso della commedia antica – la scena e la concezione stessa del ‘tragico’ che finirà per divenire una categoria indefinibile, piú di quanto non lo fosse stato per Eschilo e per Sofocle. L’approdo alla nuova forma tragica, che però restituiva alla tragedia, arricchita da nuove risorse drammaturgiche, la sua piú antica natura di παιδιά, segnava per Euripide la maturazione di un modo suo proprio di far poesia. Fu un processo evolutivo che si svolse nell’arco di un decennio, grosso modo dalla Medea alle Supplici, segnato poi da ritorni alla contemplazione del dolore (a esempio, nelle Troiane). A Eschilo Garzya si riprometteva, nei suoi tardi anni, di dedicare una monografia: questo non gli è stato possibile, ma numerosi sono i contributi a singoli drammi, anche frammentari, certo preparatori a quella che avrebbe dovuto essere l’opera d’insieme. Mi limito a segnalarne qualcuno: “Per i Sette a Tebe di Eschilo»; «Osservazioni sulla parodo dei Persiani di Eschilo», «Eschilo e il tragico: il caso della Niobe»; «Sui frammenti dei Mirmídoni di Eschilo»; «Sul problema delle Etnee di Eschilo»; «La Licurgia di Eschilo», ecc. Sarebbe cosa buona raccoglierli in volume d’insieme, in una con altri magistrali saggi di carattere piú generale, quali, per es.: «L’ironia tragica nel teatro greco del V secolo a. C.»; «Gorgia e l’ἀπάτη della tragedia»; «Sul problema della rappresentazione della individualità nella tragedia»; «Considerazioni sul tragico in Eschilo (e in Camus)», ecc.

Garzya esordiva nella produzione bizantina nel 1956, con contributi su Nicola Cabasila; del 1957 è il suo studio sulla tradizione manoscritta degli epigrammi di Teodoro Studita, alla quale fece sèguito l’edizione critica degli epigrammi; seguivano nel 1963, in collaborazione con R.J. Loenertz, l’edizione delle epistole e delle declamazioni di Procopio di Gaza e, fra il 1964 e il 1966, l’edizione di testi inediti di Michele Psello e di Niceforo Basilace, retore destinato a essere primario negli interessi dello studioso, stimolato dalle ricerche di Paolo Lamma sulla storia bizantina nel XII secolo e dalla fraterna amicizia con Silvano Borsari. Da allora la sua produzione bizantina divenne sempre piú fitta e incisiva grazie anche agli obblighi dell’insegnamento a lungo professato; se da un lato egli si poneva con coerenza nel solco della tradizione della scuola napoletana – Alessandro Olivieri, Vittorio De Falco, Raffaele Cantarella, Carlo Del Grande, Francesco Sbordone, nessuno di questi aveva trascurato Bisanzio –, dall’altro si affermava come fra i maggiori bizantinisti del secolo, in Italia certamente il maggiore, protagonista in piú convegni internazionali e attivo nella promozione degli studi come Vice Presidente della Association Internationale des Études Byzantines e Presidente della Associazione Italiana di Studi Bizantini. L’attività ecdotica veniva corredata da una vasta produzione relativa alla teorizzazione e all’interpretazione delle forme letterarie, che lo pose al centro di un dibattito che aveva in quegli anni prevalente punto di riferimento nella scuola viennese di Herbert Hunger. In numerosi saggi, prodotti per lo piú in occasione di convegni internazionali o per prolusioni accademiche, Garzya prospettò vie nuove per la storicizzazione del ‘fenomeno Bisanzio’ cercandogli una collocazione nel piú vasto contesto del Medioevo europeo, quand’anche con una fisionomia tutta propria. Ricordo qui, soltanto a titolo di esempio, alcuni scritti maggiormente innovativi: quello sulla produzione letteraria definita di uso strumentale, tèma della relazione al Congresso viennese di studi bizantini (198) e “Topica e tendenza nella letteratura bizantina”, versione italiana della memoria letta nel 1976 alla Accademia delle Scienze di Vienna in occasione della sua cooptazione. Si deve ad Antonio Garzya se la bizantinistica italiana ha superato quella tendenza che aveva dominato tutta la prima metà del secolo trascorso e che vedeva privilegiati il versante che possiamo definire genericamente religioso e la ricerca erudita fine a sé stessa, e cerca ora di interrogare i testi dall’interno. A partire dai tardi anni ’80 gli interessi di studio di Garzya erano pervenuti anche alla storia e ai testi della medicina bizantina, continuando anche in questo settore un filone di studi già presente nella tradizione napoletana con Alessandro Olivieri e Francesco Sbordone. Fra i numerosi contributi di varia ispirazione e comprensivi anche della storia delle idee e di problemi etici, spicca l’edizione dei Problemata di Cassio iatrosofista, condotta in collaborazione con Rita Masullo. In questo particolare àmbito, cosí come negli altri, Garzya è stato innanzitutto formatore di allievi e promotore di iniziative scientifiche internazionali, fra le quali i periodici congressi sul tema della edizione e della esegesi dei testi medici greci in collaborazione con il centro ippocratico della Sorbona.

Abbiamo voluto riservare a conclusione di questo percorso gli studi tardoantichi. Il Garzya tardoantichista è associato in primis all’opera di Sinesio di Cirene (e non solo: si vedano, ad esempio, i magistrali saggi “Retorica e realtà nella poesia tardoantica”, “L’epistolografia letteraria tardoantica”, “Retori pagani e imperatori cristiani, e retori cristiani in scuole profane” con attenzione ai due versanti, greco e latino”, “Autobiografia in Gregorio Nazianzeno”). La sua edizione critica dell’epistolario di Sinesio, apparsa nel 1979 [Synesii Cyrenensis Epistolae (Script. Graec. et Lat. consilio Acad. Lynceorum editi), Romae 1979], fu lo sfocio di un lungo cammino di studio e di ricerca avviato fin dagli anni giovanili, auspice Nicola Terzaghi, e segnato da vari e innovativi interventi, succedutisi a partire dal 1958, in materia di critica testuale e di interpretazione. L’edizione romana è poi confluita nei classici della serie di Les Belles Lettres (Paris I-II 1997), con introduzione, traduzione francese e commentario a cura del compianto († 2010) Denis Roques. Nel 1989 vedeva la luce nei «Classici Greci e Latini» della UTET l’opus completo di Sinesio, con vasta introduzione critica, traduzione italiana e note di commento. In numerosi saggi prodotti in varie occasioni Garzya dava contributi puntuali e volutamente prudenti per l’interpretazione dell’opera del neoplatonico vescovo di Cirene. Si deve in particolare a lui se Sinesio è ritornato fra le figure piú discusse del moderno dibattito sulle ideologie del Tardoantico. È stato osservato da alcuni, e anche nel recente convegno napoletano nell’anniversario della scomparsa, che l’approccio di Garzya a Sinesio fu prevalentemente letterario, nel senso che i molti problemi legati al neoplatonismo cristiano di Sinesio e al suo rapporto con la grande letteratura patristica del IV secolo vengono per lo piú dichiarati nei termini essenziali ma non discussi, laddove grande spazio è dato al raffinato letterato. Non a caso, il Sinesio di Garzya è il Sinesio dell’epistolario, dove piú manifesta è la vivacità stilistica e linguistica e piú invadente la presenza della tradizione classica, o anche il Sinesio del “Dione” interpretato in un suggestivo saggio quale documento fra i piú alti dei conflitti di cultura nel IV secolo. Nell’edizione UTET, il Sinesio platonico e cristiano, e soprattutto il Sinesio degli Inni, nonostante la splendida loro traduzione, restava nell’insieme dell’opera alquanto marginale. Un tentativo molto cauto di ampliamento dell’interpretazione si ha nel saggio «Ai margini del neoplatonismo: Sinesio di Cirene», nel quale Garzya riscattava Sinesio dal giudizio piuttosto negativo tradizionalmente dato su di lui per l’assenza nel suo pensiero di una vera mentalità filosofica e avanzava interrogativi di cui tuttora si cerca la soluzione. La conclusione a cui perveniva era che Sinesio fu senz’altro un neoplatonico, quand’anche non riuscì o non volle formulare un suo proprio sistema, ma lasciava nell’ombra il Sinesio cristiano. Su questo aspetto influí molto – è opportuno ribadirlo – il limitato interesse dello studioso per la letteratura patristica (è significativo che alcuni dei suoi contributi patristici riguardino esclusivamente il ‘letterato’ Gregorio di Nazianzo). Il Sinesio cristiano di Garzya è sostanzialmente il vescovo impegnato, piú che nell’esercizio dell’ufficio religioso, nella difesa della sua comunità in tempi difficili. Come per la bizantinistica, anche nel campo della Tarda Antichità, Garzya ha coniugato la ricerca con l’attività di promozione culturale, soprattutto attraverso l’Associazione di Studi Tardoantichi, della quale fu socio fondatore nel 1975, Presidente per circa un ventennio, direttore del suo organo, la rivista Κοινωνία, e di tutta l’attività editoriale, organizzatore di Convegni nazionali e internazionali.

Non posso concludere questa commemorazione senza un cenno ad Antonio Garzya come uomo. Dotato d’istintive generosità e bontà, accompagnate da grande rigore morale, signorile nei modi, con qualcosa di ottocentesco nell’indole, di squisita gentilezza, poteva talora apparire ai primi approcci schivo e umbratile, se non alquanto distaccato e riservato, e questo – credo – per una sorta di naturale timidezza. Ma bastava poco perché si aprisse completamente ai suoi interlocutori, ai colleghi e in modo particolare ai giovani, ai quali era generoso di consigli e di guida, quando intravedeva in essi un concreto interesse di studio. Numerosi sono gli studiosi, italiani e stranieri, che hanno avuto in lui un sicuro punto di riferimento; numerosi i giovani ai quali ha aperto la strada della ricerca, anche dando loro ospitalità nelle varie collane editoriali da lui fondate e dirette. Vir doctissimus, era alieno dalle politiche accademiche, dalle ‘cordate’ concorsuali; negli ultimi anni avvertiva sempre piú il distacco dalla istituzione universitaria, nella quale finiva per non riconoscersi piú. Qualche anno prima del precipitare del male e della scomparsa, un dolore lacerante venne a colpirlo e forse a cagionare lo spegnersi progressivo della sua vitalità: la perdita tragica di una giovanissima nipote, nella quale aveva riposto molte speranze. Quando lo incontravo all’Accademia Pontaniana, divenuta la sua ‘cattedra’ dopo il pensionamento, intravedevo in lui la sofferenza dell’animo, che traspariva dallo sguardo spesso malinconico e assorto, dall’evidente sforzo nel dimostrare una serenità ormai distrutta, dai momenti di cupo silenzio. Ma questa sofferenza restava tutta íntima: aveva iniziato la sua socratica μελέτη θανάτου. Si preparava al congedo. Sposo e padre affettuoso, viveva con tenerezza il suo rapporto con la famiglia, per la compagna di una vita, la dolce signora Jacqueline, per i figli, per le nipoti.

UGO CRISCUOLO