I versi di Garzya e il canzoniere della vita perduta
FABRIZIO COSCIA
Ciò che colpisce, nella poesia di Giacomo Garzya, è la sua nitidezza o, come scrive Eugenio Mazzarella nell’introduzione al nuovo volume Pensare è non pensare (Bibliopolis, pagg.71, euro 6,50), la “semplicità pensosa del suo dettato”. Sono versi di una immediatezza difficile da incontrare nel panorama assai variegato e confuso in cui si dibatte ormai da decenni la poesia contemporanea, eppure colti, pieni di reminiscenze e citazioni della tradizione lirica italiana e classica : dal Montale più colloquiale a Pascoli. Da Leopardi fino a Catullo.
Quest’ultima raccolta è un canzoniere dalla doppia anima. Una prima parte caratterizzata dal topos del viaggio, declinato come metafora, evocazione sensuale di paesaggi amati (“Montauban”, “Karnak”), e intima geografia degli affetti (“Sabbie e pietre”, col suo suggestivo incipit : “Tutte care / le sabbie, le pietre della mia vita”). Poi c’è una cesura improvvisa, ma in qualche modo annunciata in versi che hanno una oscura quanto terrifica forza presaga (soprattutto in “Ai nostri morti”) : la tragica scomparsa dell’adorata figlia Fanny.
L’irruzione della morte trasforma i versi di Garzya in un sommesso e commovente epicedio in memoria della figlia : “Il tuo sorriso / il tuo gioioso canto / a tanti mancano”, scrive in “Un fiore reciso”, come a voler rendere collettivo, universale, un dolore privato. Laddove prima dominavano colori e “giochi della luce” e il grido festante della vita (“Hey Jacomo!! / jejeje”) adesso c’è solo il freddo del “vento marino” che gela dentro e una memoria che si fa allo stesso tempo consolazione e dolore.
L’io poetico si muta, così, in un Orfeo alla disperata ricerca della sua Euridice nel regno dell’Ade, con l’unica arma del suo canto. Salvo ritrovare una scintilla di speranza nell’armonia degli elementi (“Sopravvivere”), pur nella consapevolezza di una coscienza per sempre dilacerata (“L’io diviso”).
Articolo di Fabrizio Coscia pubblicato su “Il Mattino” del 3 luglio 2009.