Quando muore una persona cara

Quando muore una persona cara

VALERIO PETRARCA

“Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parte di noi stessi? Se lo chiedeva Benedetto Croce, nella scia ininterrotta di altri grandi pensatori, in una pagina dei Frammenti di etica, ma ce lo chiediamo anche noi persone comuni, perché comune è l’esperienza della morte. E tutti avvertiamo un impulso che ci obbliga a fare qualcosa contro ciò per cui nulla si può fare.

È insensato questo impulso, ma è tanto più forte quanto più minaccioso è il vuoto prodotto dall’interruzione di una presenza, come accade soprattutto di fronte alla morte dei giovani, come è accaduto di fronte a quella di Fanny Garzya che se n’è andata prima di compiere venticinque anni. In occasione dell’anniversario, Angelo Rossi dell’Arte Tipografica ha offerto un libro ai suoi genitori, a Giacomo e Paola Celentano : FANNY GARZYA, Scritti e racconti brevi (in appendice ricordi di lei, a cura del suo papà), Arte Tipografica, Napoli 2009.

Questo libro, benché stampato “in soli duecento esemplari non venali”, fa di un dolore privato un’occasione pubblica di riflessione sulla città e i giovani.

Il volume si apre con brevi scritti di presentazione dei genitori di Fanny, prosegue con le pagine del suo diario riguardanti letture, esperienze di vita e riflessioni e si conclude con le testimonianze ancora del padre e di amici e docenti che l’avevano conosciuta durante gli studi liceali al Sannazaro di Napoli, quelli universitari a Firenze e alla Sorbonne di Parigi o durante altre esperienze di formazione e di impegno umanitario presso istituti di prestigio internazionale.

Il valore di questa testimonianza sta nello scarto tra la maturità della scrittura dell’autrice e i tratti biografici di lei che apprendiamo attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuta e amata. La scrittura di Fanny tende spesso alla descrizione realistica. Tratteggia per esempio con accuratezza il bizzarro manufatto per difendere un fico dalla forza di gravità fino a farci vedere il suo autore, un contadino che mangia pane e formaggio e ha il sonno “scuro scuro”.

O ancora, nell’andatura giovanile di una donna non più giovane, ci descrive il dramma quotidiano di una moglie che trae la sua gioia dal compimento del dovere di stare accanto a un marito che forse non ama e da cui non si sente amata.. Le testimonianze su Fanny parlano invece di tutto fuorché di realismo, perché da che era adolescente ha inseguito il sogno di un mondo meno ingiusto, fino a consacrarsi allo studio dei Diritti dell’Uomo nell’intenzione di fornire assistenza legale agli ultimi del mondo, fino a mettersi accanto ai migranti in cerca di aiuto a Parigi.

Da dove nasce questo scarto tra una scrittura rigorosa ancorata ai fatti e alle cose e una mente e un cuore aperti al mondo, allo slancio verso il bene comune, al desiderio di una società più giusta e felice? Nasce da un’educazione, da un modo di prendersi cura dei figli e in genere dei giovani che fino a qualche decennio fa non erano rari a Napoli. Era un tipo di educazione che aveva alla base la certezza che era meglio trasmettere ai figli strumenti conoscitivi e un patrimonio ideale più che rendite materiali. Era un’educazione fatta di studi severi in cui la lettura e la scrittura avevano un posto di grande rilevanza quale che fossero le carriere cui i giovani erano destinati.

Ed era questo tipo di educazione a fare di Napoli veramente una capitale culturale, non solo per le emergenze, ma per una diffusa cultura illuminata da cui appunto alcune persone di spicco emergevano.

La fine di Fanny, uccisa da una macchina di lusso guidata da un giovane della sua stessa età il 6 febbraio dell’anno scorso, sgomenta due volte : perché non la rivedremo più e perché abbiamo paura che la sua morte simboleggi la rarefazione o addirittura la fine di un modo giovanile di stare al mondo. E il “che cosa dobbiamo fare degli estinti” suona allora con maggiore forza.

Se lo chiede il padre stesso di Fanny, Giacomo Garzya, ricorrendo proprio ai Frammenti di etica di Croce fino a trascriverne lunghi passi, tra cui questo :”Nel suo primo stadio, il dolore è follia : si è in preda a impeti, si vuole revocare l’irrevocabile, chiamare chi non può rispondere, sentire il tocco di una mano che ci è sfuggita per sempre, vedere il lampo di quegli occhi che più non ci sorrideranno. E noi abbiamo rimorso di vivere, vorremmo morire con i nostri morti. Ma con l’esprimere il dolore, nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio rendendolo oggettivo. Né diversamente accade nell’altro modo col quale ci proponiamo di farli vivere ancora, che è di continuare l’opera a cui essi lavorarono e che è rimasta interrotta”.

Articolo di Valerio Petrarca, pubblicato in “La Repubblica” dell’11 febbraio 2009.

 

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