Giacomo Garzya a 19 anni, Parigi, Tour Eiffel (foto di sua sorella Chiara, 22 agosto 1972)
La poetica di Giacomo Garzya, tra poesia e fotografia
UNA RIFLESSIONE SULLA MIA ATTIVITÀ DI POETA E FOTOGRAFO
La poesia è stata sempre parte importante della mia vita, in cui si riversano le mie letture, la mia esperienza, la mia inquietudine esistenziale, gli affetti più cari, il lutto per la scomparsa tragica di mia figlia Fanny. Lo stile nella scrittura ha un peso specifico: Francesco De Sanctis diceva che “la forma è la cosa”, ma l’uso indispensabile delle principali regole della retorica – la poesia non è la prosa – e la forza evocativa delle parole, legate al personale bagaglio lessicale (la parola greca “Logos”, quindi, nei suoi due significati di parola e pensiero, tante parole tanti pensieri), non bastano da sole, senza un’ispirazione creativa fatta di emozioni, l’ “Io lirico”, la storia anche personale di ieri e di oggi, purché si renda universale. Quindi forma e contenuti, secondo la lezione leopardiana che definiva Vincenzo Monti “poeta dell’orecchio e della immaginazione, ma non del cuore”. Nel mio caso la determinazione delle parole non lascia molto spazio a più livelli di lettura, se mai è la poesia nella sua interezza che può aprire a più interpretazioni. È in questo, sempre nel mio caso, che la poesia si distacca dalla prosa. L’immediatezza con cui molte poesie sono state scritte non vuol dire scrittura spontanea, ma pensieri sedimentati, che fuoriescono quando devono e, se il ” labor limae “segue spesso veloce, non vuol dire che ciò sia un peccato di leggerezza, ma un modo personale di rapportarsi alle parole nel loro significato. Il mio percorso poetico trentennale, se non si considerano gli anni giovanili, vuole essere innanzitutto autobiografico, intimista, introspettivo, tuttavia sempre universale, come un diario dell’anima, non della mia soltanto, ma di tutte le anime portate a pensare, a riflettere sul significato della propria esistenza, nel suo scorrere tra esperienze trascorse e nuove emozioni. Sin da piccolo mio padre Antonio – poliglotta (parlava correntemente otto lingue), insigne Filologo classico e bizantinista, professore di Letteratura greca all’Università Federico II di Napoli, nonché di greco medioevale alla Sorbona e “associé étranger de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres” – il mio primo Maestro, mi inculcò il valore dell’universalità e quando scrivo interrogo me, pensando agli altri. Sicuramente nelle mie poesie, col passare degli anni, vi si legge anche un iter di maturazione verso tematiche storiche, sociali, religiose, ambientali, non solo, quindi, legato a ispirazioni introspettive e intimistiche, che pure sono parte consistente della mia produzione. Il mio poetare, infine, definito da qualche critico, “neoumanistico”, il mio fotografare, la fotografia complementare alla mia poesia, spesso vissuti in prima istanza con le persone care, vogliono essere anche una risposta al mondo in cui viviamo, dove certi valori vengono dimenticati. Le radici, la storia come memoria, i luoghi, la natura, gli affetti più cari entrano infatti nel mio percorso poetico, ma su tutti, il vento, che domina il nostro vivere, come il mare. Credo che la sostanza del mio fare (citando Oscar Wilde, nella mia prima silloge poetica del 1998, “Solaria”, “Coloro i quali trovano nelle cose belle significati belli, sono persone colte. Per questi c’è speranza”) sia un invito a vivere con gioia le cose belle, in pace con sé stessi e con gli altri, in contrapposizione dialettica al dolore, al dramma della morte. Il dolore, il dubbio, l’oppressione rimanendo comunque i veri motori dell’esistenza, forieri di creatività, di libertà, di fede, anche quella del “Deus sive Natura” di Spinoza, che aveva divinizzato l’intero Cosmo, stando all’interpretazione di Hegel.
Quanto alla mia fotografia, essa nasce fin dall’infanzia come fotografo di famiglia nei viaggi estivi, quando con un apparecchio a fuoco fisso, senza nessuna pretesa, fotografavo viaggiando con la mia famiglia; fu in quegli anni che visitando musei d’arte nelle varie capitali europee, acquisii un gusto personale, utile per inquadrare le foto, di lì anche la capacità di saper osservare i paesaggi, urbani e non, nonché le varie tipologie di persone incontrate. La mia fotografia divenne professionale in pochi anni, dopo il passaggio nel 1981 alla reflex e alle diapositive, con risultati più che soddisfacenti, soprattutto quando iniziai a fotografare con l’ottica Zeiss. Questo percorso analogico si concluse nel 2009, l’anno in cui fui costretto al digitale, in primo luogo, perché i laboratori fotografici, per il crollo della domanda, non rinnovavano più con frequenza gli acidi per lo sviluppo delle diapositive, con risultati a dir poco disastrosi, in secondo luogo perché diventava sempre più difficile reperire le pellicole, essendosi ridotta la loro produzione a livello mondiale. La mia fotografia, poi, è stata innanzitutto basata sullo studio impressionistico della luce: per qualche critico, una metafisica della luce finalizzata alla ricerca di una natura primordiale nei suoi elementi fluttuanti, in un incessante pànta rheî, quindi uno studio sui quattro elementi, basata sulla lettura dei Greci, in particolare i frammenti di Empedocle, che mi portava a fotografare nuvole, tramonti rossi, onde marine, rocce, albe sul Vesuvio, secondo un criterio che avrebbe portato al superamento del momento prettamente emotivo che le aveva volute. L’acqua, elemento primigenio, la terra in continua trasformazione, il fuoco indomito che stordisce, abbaglia, che dà luce alla scena e calore alla nostra esistenza, alla nostra fantasia, quindi anche un rapporto cromatico-emozionale tra elementi che interagiscono tra loro: Fuoco-Sole-Luce-Energia-Calore-Colore-Nuvole-Acqua- Vento-Roccia. Tale ricerca, durata molti anni, confluì in parte, per quanto concerne l’elemento Acqua, in una mia mostra personale nel 2006 all’Istituto italiano per gli Studi filosofici “Il mare che non si vede”. Lo studio monografico sui quattro elementi, solo per la mia incapacità di trovare degli sponsors, non si concretizzò, una ventina d’anni fa, in una mostra personale a Milano e in un volume edito sempre a Milano, la capitale italiana della fotografia. Ebbene questi, oltre ai reportages fotografici dei miei viaggi, sono i temi ricorrenti nella mia fotografia. Quanto alla mia fotografia analogica, la diapositiva per me aveva rappresentato un prodotto finito già allo scatto, non si poteva sbagliare, e già ne conoscevo il risultato, buono non solo per il reportage, ma soprattutto per la fotografia creativa. Anche con l’apparecchio digitale, in realtà, con opportuni accorgimenti e tarature a priori, fotografando per lo più con priorità dei diaframmi, ho ottenuto ottimi risultati, senza mai arrivare al “photoshop”, se non per regolare, quando necessario, la luminosità. Pur rimpiangendo la fotografia analogica, per una mia personale modalità di intendere la resa fotografica, la fotografia digitale, specie nel reportage e nelle precarie condizioni di luce, presenta innumerevoli vantaggi, che non sto qui a dire tanto sono noti, su tutti quello di avere a disposizione un numero quasi illimitato di scatti e, nella stessa macchina, molteplici pellicole, nonché quello di non dipendere dalla temperatura dell’ambiente circostante, nemico giurato delle diapositive. Infine la fotografia digitale ha aperto a un tipo di arte più concettuale, surreale, rielaborata a tavolino, ma che non ha più niente a che fare col mio modo di intendere la fotografia, sempre soggettiva, ma al confronto, senz’altro più realistica.
Trieste, 27 ottobre 2024
Giacomo Garzya
A REFLECTION ON MY ACTIVITY AS A POET AND PHOTOGRAPHER
Poetry has always been an important part of my life, in which my readings, my experience, my existential restlessness, my dearest affections, the mourning for the tragic death of my daughter Fanny are poured. The style in writing has a specific weight: Francesco De Sanctis said that “form is the thing”, but the indispensable use of the main rules of rhetoric – poetry is not prose – and the evocative power of words, linked to personal lexical baggage (the Greek word “Logos”, therefore, in its two meanings of word and thought, many words many thoughts), are not enough by themselves, without a creative inspiration made of emotions, the “lyrical I”, the personal history of yesterday and today, as long as it becomes universal. Therefore form and content, according to the Leopardian lesson that defined Vincenzo Monti as “poet of the ear and of the imagination, but not of the heart”. In my case, the determination of words does not leave much room for multiple levels of reading, if anything it is poetry in its entirety that can open to multiple interpretations. It is in this, always in my case, that poetry detaches itself from prose. The immediacy with which many poems have been written does not mean spontaneous writing, but sedimented thoughts, which emerge when they must and, if the ” labor limae ” often follows quickly, it does not mean that this is a sin of frivolity, but a personal way of relating to words in their meaning. My thirty-year poetic journey, if we do not consider the youthful years, wants to be first of all autobiographical, intimate, introspective, yet always universal, like a diary of the soul, not only mine, but of all souls led to think, to reflect on the meaning of their existence, in its flow between past experiences and new emotions. Since I was a child, my father Antonio – a polyglot (he spoke eight languages fluently), a distinguished classical and Byzantine philologist, professor of Greek literature at the Federico II University of Naples, as well as of medieval Greek at the Sorbonne and “associé étranger de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres” – my first teacher, instilled in me the value of universality and when I write I question myself, thinking of others. Surely in my poems, over the years, you can also read a process of maturation towards historical, social, religious, environmental themes, not only, therefore, linked to introspective and intimate inspirations, which are also a consistent part of my production. Finally, my poetry, defined by some critics, “neo-humanistic”, my photography, the photography complementary to my poetry, often experienced first and foremost with loved ones, also want to be a response to the world we live in, where certain values are forgotten. Roots, history as memory, places, nature, dearest affections enter in fact into my poetic path, but above all, the wind, which dominates our living, like the sea. I believe that the substance of my doing (quoting Oscar Wilde, in my first poetic anthology of 1998, “Solaria”, “Those who find beautiful meanings in beautiful things, are cultured people. For these there is hope”) is an invitation to live beautiful things with joy, in peace with oneself and with others, in dialectical opposition to pain, to the drama of death. Pain, doubt, oppression remain however the true engines of existence, harbingers of creativity, freedom, faith, even that of Spinoza’s “Deus sive Natura”, who had deified the entire Cosmos, according to Hegel’s interpretation.
As for my photography, it was born in childhood as a family photographer on summer trips, when with a fixed-focus camera, without any pretension, I took pictures while traveling with my family; It was in those years that visiting art museums in various European capitals, I acquired a personal taste, useful for framing photos, from there also the ability to observe landscapes, urban and otherwise, as well as the various types of people encountered. My photography became professional in a few years, after switching to reflex and slides in 1981, with more than satisfactory results, especially when I began to photograph with Zeiss lenses. This analog path ended in 2009, the year in which I was forced to go digital, firstly, because the photographic laboratories, due to the collapse in demand, no longer frequently renewed the acids for developing slides, with disastrous results to say the least, secondly because it was becoming increasingly difficult to find films, their production having decreased worldwide. My photography, then, was first and foremost based on the impressionistic study of light: for some critics, a metaphysics of light aimed at the search for a primordial nature in its fluctuating elements, in an incessant pànta rheî, therefore a study of the four elements, based on the reading of the Greeks, in particular the fragments of Empedocles, which led me to photograph clouds, red sunsets, sea waves, rocks, sunrises on Vesuvius, according to a criterion that would have led to the overcoming of the purely emotional moment that had wanted them. Water, the primordial element, the earth in continuous transformation, the indomitable fire that stuns, dazzles, that gives light to the scene and heat to our existence, to our imagination, therefore also a chromatic-emotional relationship between elements that interact with each other: Fire-Sun-Light-Energy-Heat-Color-Clouds-Water-Wind-Rock. This research, which lasted many years, partly resulted, as far as the element of Water was concerned, in my personal exhibition in 2006 at the Italian Institute for Philosophical Studies “The Sea That Cannot Be Seen”. The monographic study on the four elements, only due to my inability to find sponsors, did not materialize, about twenty years ago, in a personal exhibition in Milan and in a volume published in Milan, the Italian capital of photography. Well, these, in addition to the photographic reportages of my travels, are the recurring themes in my photography. As for my analog photography, the slide for me had represented a finished product already at the shot, you couldn’t go wrong, and I already knew the result, good not only for reportage, but above all for creative photography. Even with the digital camera, in reality, with appropriate precautions and a priori calibrations, photographing mostly with aperture priority, I obtained excellent results, without ever having to resort to “photoshop”, except to adjust, when necessary, the brightness. Even though I miss analog photography, for my personal way of understanding photographic rendering, digital photography, especially in reportage and in precarious light conditions, has countless advantages, which I won’t go into here since they are well known, above all that of having an almost unlimited number of shots available and, in the same camera, multiple films, as well as that of not depending on the temperature of the surrounding environment, sworn enemy of slides. Finally, digital photography has opened up a type of art that is more conceptual, surreal, reworked at the table, but which no longer has anything to do with my way of understanding photography, always subjective, but in comparison, undoubtedly more realistic.
Trieste, October 27, 2024
Giacomo Garzya
UNE RÉFLEXION SUR MON ACTIVITÉ DE POÈTE ET PHOTOGRAPHE
La poésie a toujours été une part importante de ma vie, dans laquelle se déversent mes lectures, mon expérience, mes inquiétudes existentielles, mes plus chères affections, le deuil de la mort tragique de ma fille Fanny. Le style dans l’écriture a un poids spécifique : Francesco De Sanctis disait que « la forme est la chose », mais l’utilisation indispensable des grandes règles de la rhétorique – la poésie n’est pas de la prose – et de la force évocatrice des mots, liée au bagage lexical personnel (le mot grec “Logos”, donc dans ses deux sens de mot et de pensée, beaucoup de mots, beaucoup de pensées), ne suffisent pas à eux seuls, sans une inspiration créatrice faite d’émotions, le “je lyrique”, l’histoire aussi personnel d’hier et d’aujourd’hui, à condition de le rendre universel. Donc forme et contenu, selon la leçon de Leopardi qui définissait Vincenzo Monti comme un « poète de l’oreille et de l’imagination, mais pas du cœur ». Dans mon cas, la détermination des mots ne laisse pas beaucoup de place à de multiples niveaux de lecture, c’est plutôt le poème dans son intégralité qui peut s’ouvrir à de multiples interprétations. C’est en cela, toujours dans mon cas, que la poésie se détache de la prose. L’immédiateté avec laquelle de nombreux poèmes ont été écrits ne signifie pas une écriture spontanée, mais des pensées sédimentées, qui surgissent quand elles le doivent et, si le “labor limae” suit souvent rapidement, cela ne veut pas dire qu’il s’agit d’un péché de légèreté, mais d’une manière capacité personnelle à comprendre les mots dans leur sens. Mon parcours poétique de trente ans, si l’on ne considère pas mes années de jeunesse, se veut avant tout autobiographique, intime, introspectif, mais toujours universel, comme un journal de l’âme, non seulement de la mienne, mais de toutes les âmes enclines à penser, réfléchir au sens de son existence, dans son flux entre expériences passées et émotions nouvelles. Depuis mon enfance, mon père Antonio – polyglotte (il parlait couramment huit langues), éminent philologue classique et byzantin, professeur de littérature grecque à l’Université Federico II de Naples, ainsi que de grec médiéval à la Sorbonne et ” associé étranger de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres” – mon premier Maître, m’a inculqué la valeur de l’universalité et quand j’écris je me remets en question, en pensant aux autres. Certes, dans mes poèmes, au fil des années, on peut aussi lire un processus de maturation vers des thèmes historiques, sociaux, religieux, environnementaux, non seulement donc liés à des inspirations introspectives et intimes, qui constituent également une part substantielle de ma production. Enfin, ma poésie, définie par certains critiques comme « néohumaniste », ma photographie, la photographie complémentaire de ma poésie, souvent vécue en premier lieu auprès des proches, se veut aussi une réponse au monde dans lequel nous vivons, où certains valeurs, ils sont oubliés. Les racines, l’histoire comme mémoire, les lieux, la nature, les affections les plus chères entrent dans mon voyage poétique, mais surtout le vent, qui domine nos vies, comme la mer. Je crois que la substance de mon travail (citant Oscar Wilde, dans ma première anthologie poétique de 1998, « Solaria », « Ceux qui trouvent de belles significations dans les belles choses sont des gens cultivés. Pour eux, il y a de l’espoir ») est une invitation à expérimenter les belles choses dans la joie, en paix avec soi-même et avec les autres, en opposition dialectique à la douleur, au drame de la mort. La douleur, le doute, l’oppression restent encore les véritables moteurs de l’existence, annonciateurs de la créativité, de la liberté, de la foi, voire de celle du « Deus sive Natura » de Spinoza, qui avait déifié le Cosmos tout entier, selon l’interprétation de Hegel. Quant à ma photographie, elle a commencé dans mon enfance en tant que photographe de famille lors de voyages d’été, lorsqu’avec un appareil photo à mise au point fixe, sans aucune prétention, je photographiais en voyage avec ma famille ; c’est dans ces années-là qu’en visitant les musées d’art de différentes capitales européennes, j’ai acquis un goût personnel, utile pour le cadrage des photos, de là aussi la capacité d’observer les paysages, urbains ou non, ainsi que les différents types de personnes rencontrées. Ma photographie est devenue professionnelle en quelques années, après être passée au reflex et aux diapositives en 1981, avec des résultats plus que satisfaisants, notamment lorsque j’ai commencé à photographier avec des objectifs Zeiss. Ce voyage analogique s’est terminé en 2009, année où j’ai été contraint de passer au numérique, d’abord parce que les laboratoires photographiques, en raison de l’effondrement de la demande, ne renouvelaient plus fréquemment les acides pour le développement des diapositives, avec des résultats qui n’étaient tout simplement pas très désastreux, d’autre part parce qu’il devenait de plus en plus difficile de trouver des films, leur production dans le monde ayant diminué. Ma photographie reposait donc avant tout sur l’étude impressionniste de la lumière : pour certains critiques, une métaphysique de la lumière visant la recherche d’une nature primordiale dans ses éléments fluctuants, dans un panta rheî incessant, donc une étude sur les quatre éléments, basés sur la lecture des Grecs, en particulier des fragments d’Empédocle, qui m’ont amené à photographier des nuages, des couchers de soleil rouges, des vagues de la mer, des rochers, des levers de soleil sur le Vésuve, selon un critère qui conduirait à dépasser le moment purement émotionnel que j’avais souhaité eux. L’eau, l’élément primordial, la terre en transformation continue, le feu indomptable qui étourdit, éblouit, qui donne de la lumière à la scène et de la chaleur à notre existence, à notre imaginaire, donc aussi une relation chromatique-émotionnelle entre les éléments qui interagissent les uns avec les autres. : Feu-Soleil-Lumière-Énergie-Chaleur-Couleur-Nuages-Eau-Vent-Rocher. Cette recherche, qui a duré de nombreuses années, a partiellement convergé, en ce qui concerne l’élément Eau, dans une de mes expositions personnelles en 2006 à l’Institut italien d’études philosophiques “La mer qu’on ne peut pas voir”. L’étude monographique sur les quatre éléments, uniquement à cause de mon incapacité à trouver des sponsors, ne s’est pas concrétisée, il y a une vingtaine d’années, dans une exposition personnelle à Milan et dans un volume publié à nouveau à Milan, la capitale italienne de la photographie. Eh bien, ce sont, en plus des reportages photographiques de mes voyages, les thèmes récurrents de ma photographie. Quant à ma photographie argentique, la diapositive représentait pour moi un produit fini dès le moment de la prise de vue, on ne pouvait pas se tromper et je connaissais déjà le résultat, bon non seulement pour le reportage, mais surtout pour la photographie créative. Même avec l’appareil photo numérique, en réalité, avec des précautions et des calibrages appropriés a priori, en photographiant majoritairement avec priorité à l’ouverture, j’ai obtenu d’excellents résultats, sans jamais passer à “photoshop”, sauf pour régler la luminosité lorsque cela était nécessaire. Si la photographie argentique me manque, du fait de ma manière personnelle d’appréhender le rendu photographique, la photographie numérique, notamment en reportage et dans des conditions de lumière précaires, présente d’innombrables avantages, que je ne dirai pas ici car ils sont bien connus, notamment celui d’avoir un nombre quasi illimité de plans est disponible et, dans la même caméra, plusieurs films, sans compter que cela ne dépend pas de la température du milieu ambiant, ennemi juré des diapositives. Enfin, la photographie numérique a ouvert la voie à un art plus conceptuel, surréaliste, retravaillé à table, mais qui n’a plus rien à voir avec ma façon d’appréhender la photographie, toujours subjective, mais certes plus réaliste en comparaison.
Trieste, le 27 octobre 2024
GIACOMO GARZYA
GIACOMO GARZYA RIPROPONE IN QUESTA PAGINA UNA POESIA, SCRITTA L’8 LUGLIO 2009, PER SUA SORELLA CHIARA (16 GENNAIO 1955-8 APRILE 2019), NEL RICORDO INDIMENTICABILE DI QUINDICI ANNI DI VIAGGI INSIEME.
IL VIAGGIO DELLA VITA
A Chiara sorella
Tante sequenze i miei viaggi,
come foto su celluloide fissate
dagli occhi
attraverso finestrini in corsa
col vento.
Pianure, monti, pascoli, fiumi
da ponti di ferro, alberi quanti
alberi, casolari, case su case,
porti, confini di stato, pullulare
di volti,
attraverso finestrini di auto e
di treni in corsa.
Tante sequenze, quanti ricordi,
questi i viaggi con Chiara sorella,
fino ai vent’anni.
In lotta col tempo che passa,
senza tornare indietro,
il viaggio della vita continua,
e quell’anfora,
che viene dal mare, lì al centro
del quadro,
tutti li contiene i ricordi, proprio
tutti, recenti e remoti.
Né togliendone il tappo,
i mali del mondo e la morte
agli uomini darebbe Pandora,
bensì la vita, la gioia di vivere e
ancora vivere,
che solo il viaggio e gli affetti
possono dare,
anche quelli per sempre perduti.
Napoli, 8 luglio 2009
Giacomo Garzya
Poesia in Giacomo Garzya, “Il viaggio della vita”, Napoli 2010, M. D’Auria Editore, p. 74 e in Giacomo Garzya, “Poesie” (1998-2010), Napoli 2011, M. D’Auria Editore, p. 332
Alba dal Kastro di Kokala (Mani interno), 12 luglio 1995 (foto di Giacomo Garzya )
IL MIO “IO” LIRICO
Tu amico caro,
ti persi nelle nebbie del Connemara selvaggio e a tanti poeti sublime,
dai laghi blu pastello, tra brughiere
e torbiere color ruggine, agli antichi
confini in pietra a delimitare colline,
baie e spiagge sabbiose,
tu, forse nascosto per sempre al mondo,
in qualche porticciolo sicuro dal mare Oceano, non solo durante l’inverno
furioso,
sapevi leggere nei tuoi occhi l’anima scomoda che era in te, non corrotta,
non plasmabile, direi forte,
sapevi vivere nel silenzio le tenebre misteriose della morte, senz’affanno
la solitudine spesso cercata.
Non sempre amato, perché restio
al compromesso, nonostante le tue
paure, i lutti,
sapevi trovare felicità nelle piccole cose, riponendo nelle segrete del cuore
le chiavi del tuo aguzzo dolore: un mezzo inferno la vita, le ferite vero balsamo
per la tua poesia.
I tuoi principi, la fiducia che avevi
nel perseguirli senza timore, erano come radici profonde difficili da sradicare,
come era impossibile che dimenticassi
le tue emozioni, a volte vere mareggiate,
da cui nascevano sentimenti nuovi,
nuove storie, a stravolgere gli amari
colpi del destino.
Arrivederci amico caro.
Spero comunque di rivederti ancora
nei tenui colori del Connemara,
lì dove persi la tua anima,
ma non il tuo ricordo.
Trieste, 2 giugno 2023
Giacomo Garzya
LA PASSIONE DI CRISTO
a Serena Nono, per la sua opera
L’olio pigmentato, come santo, a intingere
sulle tue tele una Via della croce, un pathos
cosmico, universale, dove un Dio fattosi uomo
la morte vince per la nostra salvezza, le mani
giunte nel Getsèmani, strette tra loro per darsi
forza al pensiero delle frustate, dei chiodi nella
carne, al pensiero della Madre dolente, di Maria
a sostenere un corpo strappato alla croce.
Figure oranti le tue, in un silenzio assordante
e tu a rappresentare tante Pietà, fino a un Cristo
morto, disteso, supino, come già vidi in Mantegna,
tanto da sconvolgere l’anima, la tua, così rappresa
nel dolore, da strappare le lacrime.
Le mani a coprirti il volto,
come in Maria di Magdala, perché tu non giunga
a guardare l’insopportabile, davanti allo specchio
della storia, un Christus patiens, le mani giunte
in preghiera per noi.
Trieste, 8 febbraio 2024
Giacomo Garzya
BENEDETTO SEDICESIMO
Opalina la luce
del Cristo di Nazareth,
puro amore sulle tue labbra
fino all’ultimo respiro,
illumina il tuo volto cereo,
ieratico per la sacralità
della tua vita, le spoglie terrene
distese su un feretro in San
Pietro, come Gesù deposto
sulla pietra, nella Basilica
del Santo Sepolcro,
nella mia cara Gerusalemme.
Tu Benedetto di nome e di fatto,
che hai percorso la strada
della saggezza e della preghiera,
oggi incontri l’agape di Dio,
uno e trino, nel fraterno abbraccio
di Suo figlio, nostro Salvatore.
Tu, umile uomo di Chiesa,
dal carattere mite, cercasti
la via della verità con la ragione,
lo studio dei sacri testi e trovasti
l’amore infinito di Dio,
perché è partendo dal dubbio,
che impone la ragione,
che si arriva alla vera fede,
come nelle conversioni
di Blaise Pascal, Charles Péguy,
Alexis Carrel e di tanti altri
increduli.
Di alta scienza teologica,
fin dal Concilio ecumenico
Vaticano Secondo,
preconizzasti un ritorno
al Vangelo, denunciando,
come Agostino d’Ippona,
un mondo senza Dio, “senza
la nozione di bene e di male”,
le tue parole.
La tua vita tesa a riedificare
un millenario castello, a rischio
di rovina,
lottando contro l’incredulità
e la decristianizzazione
e ogni relativismo morale,
piaga d’un mondo occidentale
in declino, dove agnosticismo
e ateismo trionfano,
a rinnegare la spiritualità e la fede
cristiana, a favorire la rinascita
d’un paganesimo con nuovi idoli,
la volgarità dilagante, che offende
ogni bellezza.
Trieste, 5 gennaio 2023
Giacomo Garzya
NEL GIORNO DELLA MEMORIA
Ancora pochi anni e non ci sarà
più nessun testimone diretto
di quella feroce disumanità nazista
e invece sempre qualcuno che
negherà o ridimensionerà
la nefanda portata di quegli eventi,
un Olocausto costato la vita
a sei milioni di ebrei incolpevoli.
Nessuno può, non deve,
dimenticare ciò che fu la Shoah,
tantomeno il grado estremo
che la malvagità umana raggiunse,
anche in altri scenari tragici
della storia.
Non si può così dimenticare
il genocidio degli Armeni,
con le prime famigerate marce
della morte,
né si possono più tacere i milioni
di morti nei Gulag sovietici
e per fame in Ucraina,
i morti durante la Rivoluzione
culturale nella Cina di Mao,
le cataste di teschi nella Cambogia
dei feroci Khmer rossi di Pol Pot,
dove bastava portare occhiali
da intellettuale, per essere eliminati
all’istante,
le uccisioni di massa in Indonesia,
le vittime serbe degli Ustascia
di Ante Pavelic, cui si cavavano
gli occhi, da sembrare lumache
nelle ceste, Malaparte ne fu
testimone incredulo,
o i tanto dimenticati infoibati
istriani, fiumani, dalmati,
la decimazione dei cento popoli
Indios della foresta amazzonica,
la minoranza Tutsi massacrata
in Ruanda dagli Hutu,
l’eccidio in una notte a Srebrenica
di ottomila bosgniacchi, su ordine
di Ratko Mladić, sotto gli occhi
impotenti dei caschi blu,
l’annosa pulizia etnica nel martoriato
Darfur,
solo per ricordare i massacri più noti,
anch’essi, nel giorno della Shoah,
a memoria dell’umana ferocia.
Trieste, 27 gennaio 2023
Giacomo Garzya
[scritta pensando alla “Melancolia” dell’uomo d’oggi, l’anima dispersa in guerre infinite, spesso lontana da ogni Credo, da ogni Fede]
KHEIRA ACHIT - HENNI, UNA CARA AMICA ALGERINA
Traduzione in arabo classico di Kheira Achit- Henni
KHEIRA
a Kheira Achit-Henni
Nei tuoi colori immagino
la tua El Asnam.
Quando parli del Tell
i tuoi occhi di araba luccicano
e l’orgoglio per i tuoi fratelli
è forte: una tribù di sedici
che giocano e ridono tra loro
come solo tu sai fare.
Quando attraversasti
il Grand’Erg
mi parlasti degli uomini
del mistero
bianchi come il latte
biondi occhi azzurri,
mi parlasti dei Tuareg,
pensavo fossero come te
sono invece bruniti dal sole
ammantati di blu
per resistere al vento caldo
al freddo della notte stellata
quella del Sahara
che un giorno vorrei vedere
con te
come mi hai promesso.
Napoli, 15 febbraio 2004
Giacomo Garzya
[per la traduzione in arabo classico di Achit – Henni Kheira, vedere in G.Garzya, “Il mare di dentro”, Napoli 2005, M.D’Auria Editore, p.86 e in G.Garzya, “Poesie” (1998 – 2010), Napoli 2011, M.D’Auria Editore, p. 228]
Giacomo Garzya ritratto dalla moglie Paola Celentano, 25 dicembre 2022
Nella mia diciottesima raccolta di poesie “È la vita”, con prefazione di Alessandro Quasimodo, Villanova di Guidonia 2024, Aletti Editore, come fin dalla prima “Solaria” del 1998, sento non poche mie poesie, figlie dell’ “Io lirico”, un’autobiografia dell’anima, un’introspezione non intimista, bensì universale. Gli amori, gli affetti, i luoghi, la natura, le mie radici mediterranee e nordiche, sono delle costanti da quando penso in versi, ma ora, in questa silloge, vi si legge una maggiore sensibilità verso l’uomo nel suo divenire storico, morale, religioso, negli anni drammatici in cui viviamo. Credo che il mio poetare sia un invito, ancor più oggi, a vivere il bello dell’esistenza, l’opera d’arte, il trascendente, i soli doni atti a lenire il dolore, il pensiero della morte.
Giacomo Garzya
UNA DECIMA MUSA
Hai sempre cercato
di volare in alta quota
tra i cumulonembi
e non sei mai stata
un corèuta e, pur avendo
sempre ammirato le danze
all’unisono dei neri storni
d’estate, infiniti i disegni
nel cielo, un miracolo
della natura i loro volteggi,
hai sempre invocato il bello
da sola, neanche corifèo
a dirigere un coro, amando
tu la lirica di Saffo, lei divina
nell’arte delle parole, prima
su tutti i poeti, a cantare
l’amore eterno, tormentato,
sublime,
al punto che una sola sua
poesia valeva come mille
in giro per l’aria, così forte
l’istinto di correre tanto in alto,
mai negli stormi, sempre da sola.
Trieste, 16 aprile 2024
Giacomo Garzya
PLACE DES ABBESSES?
Dalla finestra della mia stanza,
un’ora prima dell’alba,
come a Place des Abbesses,
giusto vent’anni fa, il favoloso
mondo di Amelie, di Fanny,
gli stessi lampioni a dare
luccichio all’acciottolato bagnato,
qui come lì, platani spogli,
le foglie appassite in nome
dell’inverno,
lì, a pochi passi dalla piazza,
le piastrelle blu coi “Je t’aime”
in infinite lingue e dialetti,
un pellegrinaggio per tanti
innamorati, una vera Babele
moderna a scambiarsi baci
appassionati.
Poi con Fanny, un Pastis tutto
bohémienne
e i duecentoventidue gradini,
fino alla bianca accecante
Basilica, per rivivere
con Van Gogh,
la sua celebre “Vue de Paris
prise de Montmartre”,
per rendere poi omaggio
agli Utrillo,
ai Modigliani,
ai Toulouse-Lautrec,
e ai pittori “de La Bonne
Franquette”,
i pittori, i veri protagonisti
di questo più che mitico quartiere.
Trieste, 1° gennaio 2024
Giacomo Garzya