GIACOMELLI
Tracce semantiche
di dura terra
metafisici paesaggi
e lunari
anime
contemplano.
Chiaroscuri tenaci
caos di linee
e geometrie
audaci,
fantasie
alimentano.
È fotografia
la più pura.
Napoli, 26 novembre 2000
in Giacomo Garzya, "Maree", Napoli 2001, M.D'Auria Editore,
p. 92.
[scritta in ricordo di Mario Giacomelli,
scomparso il 25 novembre 2000]
L'OPERA DI MARIO GIACOMELLI
"La
fotografia non è il risultato di una cosa meccanica, ma è
una cosa tua, proprio perché continua. Il mezzo meccanico blocca,
ferma e basta, ma occorre capire che una volta scattato, non si è
fatto nulla: l'orgasmo vero lo si ha dal momento che si sceglie l'immagine
e la cosa prende vita da quel momento, comincia a respirare, e se non
la si vuol far morire bisogna svilupparla in una determinata maniera,
poi bisogna stampare (pensa che non ho nemmeno il termometro perché
si deve anche poter sbagliare, e talvolta l'idea nuova sta proprio nell'errore),
correggere, modificare, per tenerla in vita. E anche quando tutto sembra
finito, non è finito proprio niente, perché solo con l'accostarla
in una certa maniera, tutto quello che si è fatto prima è
annullato per rivivere un'altra stagione"
(Mario
Giacomelli, dalle sue annotazioni sulla Fotografia, anni '90).
Il corpus
fotografico di Mario Giacomelli è la testimonianza di un percorso
ininterrotto di 50 anni, un percorso esistenziale che Giacomelli faceva
in primis per se stesso, in una dimensione indistinta tra vita e arte.
Considerato
all'unanimità un Maestro della Fotografia.
Nominato
nel 1955 da Paolo Monti "L'uomo Nuovo della Fotografia". Le
sue foto sono presenti dal 1964 nella collezione permanente del Moma
di New York e oggi conservate nei maggiori musei del mondo.
Giacomelli ha creato un suo proprio originale linguaggio fotografico:
l'alto contrasto dei bianchi "mangiati" e dei neri "chiusi",
l'uso dello sfocato e del flash di giorno, della grana e del supporto
scaduto e consumato, per un'immagine non ancorata al reale.
Il "godimento", come lui chiama la soddisfazione nel gesto
fotografico, non gli viene dal prelievo verista dell'oggetto, ma dal
poter entrare, attraverso la fotografia, "sotto la pelle del reale",
là dove perdono potere i dettami dello stereotipo, nell'espressione
libera dell'inconscio. Fotografia come creazione di uno spazio in cui
attualizzare un rituale introspettivo, fino ad approdare nell'ambito
dell'Astrattismo e della Poesia. Una performance creativa che dura un'intera
vita, dove le singole foto diventano fotogrammi di un percorso continuo,
elementi inscindibili di un Tutto, testimonianza viva di un contatto
intimo tra l'artista e il mondo.
Mario
Giacomelli, uomo di una finezza intellettuale al di là di ogni
intellettualismo, il cui fascino proviene dal suo sguardo meravigliato
sui più umili affari del quotidiano e dalla sua capacità
alchimista di tramutare la materia della realtà, usa la macchina
fotografica come una sorta di lente d'ingrandimento per avvicinarsi
così tanto al reale da renderlo specchio di se stesso.
Sarà questa sua magia, questo suo esser faber, ad aver attirato
per mezzo secolo nella sua Tipografia Marchigiana di Senigallia (cittadina
da cui l'artista non si è mai allontanato) un mondo intero, fatto
di artisti, fotografi, critici d'arte, galleristi, curatori, letterati,
etc.
(da "La
sua opera" in www.archiviomariogiacomelli.it/vita/ , vedere anche
nello stesso sito web l'estesissima biografia)
KATIUSCIA
BIONDI GIACOMELLI SCRIVE SU DI LUI:
"Piegando
la tecnica al perseguimento dell'idea che vuole raggiungere, considerando
la macchina fotografica come parte del suo corpo (lui dice: come "prolungamento
della mia idea"), Giacomelli applica la sua creatività a
quelle che si potrebbero chiamare "vie di fuga dalla regola",
per arrivare a un utilizzo estremo della macchina fotografica, da lui
successivamente modificata secondo precise esigenze, violata anche nell'uso,
per cui essa diviene un meccanismo atto a decostruire il reale, o meglio
a decostruire l'ideale comune di un reale statico.
La produzione fotografica ne risulta un sistema di continue mutazioni,
un insieme di parti intercomunicanti, un sistema vivo: ogni serie realizzata
non rappresenta affatto un capitolo ormai chiuso, perché il fotografo
a più riprese ridefinisce le sue serie fotografiche, andando
a riesumare certe immagini, parole di un discorso vecchio, per rivitalizzarle
in un nuovo discorso, come per "dare respiro alle cose grazie a
questo pretesto chiamato Fotografia".
Nelle foto della maturità si fa strada un Giacomelli performer,
e questo elemento è importantissimo nel percorso della sua produzione,
una struttura altamente rituale i cui gesti ripetitivi assumono un valore
simbolico, e in tale ritualità il discorso fotografico sortisce
un effetto performativo. E dunque l'immagine fotografica, lungi dall'essere
istantanea ripresa del contingente, accoglie ed emana una certa solennità,
anche perché il significato che l'artista le attribuisce ha a
che fare con una dimensione assoluta di un luogo senza tempo e quindi
eterno, in cui immettere se stesso: la fotografia è il "pretesto"
attraverso cui l'artista si vuole vedere inscritto nel mondo. E l'elemento
dell'autoritratto che chiude il suo percorso artistico sembra essere
il passaggio necessario di un lungo divenire, nella fusione tra atto
e parola, tra vita e arte.
Il fotografo pro-duce l'immagine, nel senso etimologico che la porta
fuori, se la tira fuori dalle viscere del suo vissuto per renderla a
lui visibile, per questo lui stesso si definisce spettatore, e lo fa
seguendo una struttura precisa, il suo metodo ritualizzato. È
questo suo essere artefice-spettatore che rende Giacomelli contemporaneo:
nell'abbandono dell'Oggetto, così come dell'intervento puramente
soggettivo, l'artista si ritrova di fronte al suo operare creativo come
di fronte a uno specchio.
È dunque chiaro che la fotografia di Giacomelli non c'è
per dichiarare "questo è successo in un determinato luogo
e tempo", come accade per una fotografia di reportage, ma assorbe
al suo interno soggetti/significanti presi unicamente per le loro interrelazioni:
continuamente spostati (quando l'artista muove i suoi soggetti da una
stampa all'altra attraverso la foto della foto e le sovrimpressioni,
ottenendo immagini in cui soggetti del presente sono immessi in una
scenografia del passato; o quando inserisce una vecchia foto in una
nuova serie), modificati (in camera oscura l'artista cambia la materia
della realtà), soggetti portati fuori dall'ancoraggio cronologico
e storico (isolati dal loro contesto dai bianchi mangiati, resi bidimensionali
dal flash usato di giorno o dal teleobiettivo, isolati con un taglio
ravvicinato), per ricreare una rete, un continuum segnico e simbolico.
Quanto più la fotografia non è chiamata a testimoniare,
tanto più i soggetti fotografati possono muoversi al suo interno
liberamente come puri significanti, il cui senso è dato dalle
loro molteplici, ripetute, rimodellate, interrelazioni; ed è
in questo che Giacomelli si avvicina all'Informale, o meglio è
per questo che si può parlare di un metodo nella sua produzione
fotografica.
Un metodo creativo che permette a Giacomelli di ricreare continuamente,
in questa sua sistema(tizza)zione del corpus fotografico intero, se
stesso nel suo nuovo rapporto con il Vuoto. Tant'è vero che alla
fine del suo percorso, nel momento in cui egli stesso decide di entrare,
con l'autoscatto, nello spazio della fotografia, questo non è
che un luogo desolato, senza vita, senza più soggetti umani,
con l'unica presenza di animali finti e case diroccate (in un'estremizzazione
assoluta del soggetto/significante). Giacomelli dice di voler in questo
modo mettere in scena un'operazione di rivitalizzazione dell'inanimato,
dice di usare gli animali finti e le maschere per sottolineare la possibilità
di animare qualcosa che sarebbe stato inanimato senza la fotografia.
Cosa significa? Che l'artista si immette in uno scenario "magico"
(più volte ha definito la fotografia in questi termini) in cui
sia possibile superare (simbolicamente) ogni distanza, persino il limite
della morte, dal momento che l'inanimato acquisisce un senso altro nel
nuovo ordine ricreato dalla fotografia. È qui, nel luogo del
vuoto, o dell'infinitamente ridefinibile, che il fotografo si avvicina
talmente alla fotografia (lui che dice che fotografare è "entrare
sotto la pelle del reale") da entrare fisicamente egli stesso in
essa, attraverso l'autoritratto, nella maturità".
(Katiuscia
Biondi Giacomelli, in Mario Giacomelli. Sotto la pelle del reale, Ed.
24 Ore Cultura 2011)
Mario
Giacomelli, da "Presa di coscienza della natura" (1976-1977)